La differenza tra “tradizione” e “consuetudine” così come noi la intendiamo è certamente ben illustrata dalla seguente analogia. La “consuetudine” è ciò che fanno i giudici; la “tradizione” […] è la parrucca, la toga, gli altri accessori formali e le pratiche ritualizzate che circondano la loro azione sostanziale. Il declino della “consuetudine” modifica inevitabilmente la “tradizione” cui essa è abitualmente legata.
Eric Hobsbawm
Imbattersi in questa profonda articolazione di pensiero [la citazione compare in Nazionalismo: lezioni per il XXI secolo, E. Hobsbawm, Rizzoli, 2021 ma esce originariamente da The Invention of Tradition, E. Hobsbawm e T. Ranger, Cambridge, 1983] del grande storico – e principale influencer della storiografia del e sul Secolo Breve – ancorché lì riferita al contesto del diritto consuetudinario britannico, porta ogni aikidoka serio a rapportare il concetto alla propria realtà quotidiana nel dojo.
Ovvero: la “consuetudine” è ciò che fanno gli Aikidoka, la “tradizione” è l’hakama, il keikogi, gli accessori formali e le pratiche ritualizzate che circondano la loro azione sostanziale.
L’azione sostanziale dell’Aikidoka
Una riflessione accorta e doverosa, quindi, porta innanzitutto a puntare l’attenzione sulla valenza della citata azione sostanziale dei praticanti di Aikido.
L’azione dell’Aikidoka è la pratica dell’Aikido.
Una semplice asserzione, quest’ultima, che apre infiniti spunti di riflessione e analisi poiché difficilmente troveremmo due Aikidoka che rispondano alla stessa maniera al quesito su cosa sia l’Aikido per loro. Ricerca di sé, arte marziale, equilibrio psicofisico, autodifesa, sviluppo e armonizzazione dei contesti relazionali, intelligenza emotiva, tecnica di combattimento, metodo per porsi al servizio della collettività, percoso di approfondimento filosofico, studio culturale del pensiero giapponese, crescita religiosa o spirituale, cammino verso il risveglio… queste sono solamente alcune delle risposte che, probabilmente, emergerebbero da un simile sondaggio. Verosimilmente, nessuna di esse è esclusiva e sufficiente a descrivere compiutamente quale sia lo scopo o il fine della pratica dell’Aikido.
Personalissima convinzione dello scrivente è che – sebbene spesso nella storia dell’uomo e del suo pensiero i migliori costrutti etico-spirituali, religiosi o filosofici di taluni grandi illuminati siano stati proposti come strumenti e mezzi e non come fini o scopi per il cammino individuale e, inoltre, la pratica dell’Aikido rientri appieno in un percorso esperienziale legato alla singolarità propria di ciascun individuo – per trovare la giusta risposta sia necessario sempre e comunque risalire all’intento originario del Fondatore, O Sensei Ueshiba Morihei.
Il grosso e immediato problema è che, purtroppo, il Fondatore non vive più – essendo venuto a mancare nel 1969 – e le testimonianze che abbiamo di lui sono soprattutto foto-filmografiche, oppure sono testimonianze soggettive legate a singoli praticanti che lo conobbero e lo frequentarono per periodi di tempo più o meno lunghi o, ancora, sono raccolte di scritti e kuden (trasmissioni orali codificate) di Ueshiba stesso di cui molto pochi, rispetto alla loro totalità, riguardano la tecnica o il fine immediato della pratica ma sono molto spesso legati alle visioni metafisiche e spirituali dell’uomo Ueshiba Morihei inserite nel contesto del suo credo religioso, l’Omoto-kyo.
Indubbiamente ed a prescindere dalle forme di Aikido praticate, pare condivisibile la certezza che il Fondatore considerasse l’Aikido come vero Budo (Aikido wa ichiban budo desu pare essere un kuden afferibile direttamente a Ueshiba Morihei), ovvero un percorso personale filosofico-spirituale che, partendo dalla rigorosa pratica di tecniche marziali, portava al miglioramento ed alla realizzazione di sé, presupposto di mutamento interiore considerato indispensabile a mutare il mondo verso una realtà più armoniosa.
Budo, infatti, non è combattimento da ring, sport o attività ludico-motoria; è, al contrario, porsi a confronto con la morte ad ogni esecuzione tecnica la quale diviene, pertanto, l’unica e la sola.
Sembra quindi imprescindibile, per giungere agli scopi più alti e nobili dell’arte, il transito continuo e intensivo attraverso la pratica rigorosa di tecniche di combattimento armato e disarmato efficienti ed efficaci, soggette ad una elevata dose di razionalità e sistematicità (Aikido wa kantan desu – l’Aikido è razionale; Morihiro Saito Sensei).
Ed ecco che, nella logica dell’apprendimento iniziatico (dinamica quasi-mistica cui l’Aikido in ultima analisi non sembra affatto sfuggire anteponendo il prerequisito della ripetizione massiccia ed intensiva del gesto corporeo al raggiungimento degli obiettivi etico-spirituali) l’unica strada per percorrere la Via pare essere la pratica costante di tecniche di combattimento – non o non solo di movimento, respirazione, danza o armonizzazione – funzionali e funzionanti.
L’inizio per un percorso esperienziale proficuo non può che essere questo e, pertanto, ecco la risposta – non esaustiva e non definitiva ma altresì imprescindibile e ineludibile – alla domanda iniziale su cosa sia l’Aikido: è una pratica che non può prescindere la correttezza e l’efficacia delle tecniche di combattimento così come concepite e praticate dal Fondatore.
Le tecniche del Fondatore
Quali siano davvero le tecniche insegnate da Ueshiba Morihei ai propri allievi e quale garanzia ci sia che le asserite tecniche ‘originali’ del Fondatore corrispondano realmente a quanto egli insegnava (e non siano, piuttosto, il prodotto di ri-elaborazioni – anche inconsce – dei singoli allievi o derivazioni dalle loro esperienze personali anche sconnesse, da un certo punto in poi, all’insegnamento di O Sensei) è una questione annosa e spinosa che affligge il panorama mondiale dell’Aikido da anni.
Il problema, piuttosto comune a discipline le più svariate che si siano basate, in un periodo iniziale, sull’accreditamento e sulla credibilità di singoli testimoni diretti e su poche fonti scritte o foto-filmografiche dirette, non ha una facile soluzione.
Di sedicenti “allievi diretti del Fondatore” è pieno il mondo dell’Aikido, ed anche volendo operare una selezione basata su criterio di selezione sufficientemente scientifico si possono identificare almeno quattro generazioni di allievi di O Sensei (due prebelliche, una postbellica ed una più tarda) [vedi] che rappresentano un paniere di almeno una cinquantina di testimoni sulle cui fonti si potrebbe ragionare.
È ben noto come O Sensei seguisse il metodo comportamentale giapponese più ortodosso ed appropriato ad un Maestro riconosciuto ed è ben chiaro che un rapporto diretto e ‘personale’ – quantomeno nel modo in cui esso possa essere concepito in occidente al giorno d’oggi – tra Ueshiba e questa cinquantina di praticanti non potesse sussistere; inoltre molti di costoro, sebbene avessero avuto l’occasione preziosissima di assistere a delle lezioni dirette dal Fondatore, non lo avevano fatto nella continuità o nel contesto della cerchia più stretta degli uchideshi (cioè degli allievi interni, coloro che risiedono presso il dojo del Maestro e lo assistono quotidianamente) e, al contrario, avevano assistito a lezioni dimostrative meno strutturali o, quantomeno, con fini pedagogici differenti da quello della trasmissione tecnica in senso stretto.
Infine, molti degli allievi delle citate quattro generazioni si staccarono in tempi differenti dalla frequentazione continuativa di O Sensei per spargersi fuori dal Giappone e portare l’Aikido – che loro in quel momento conoscevano – nel mondo.
Ne consegue che lo ‘stile’ insegnato da due differenti membri del paniere dei cinquanta, magari da esponenti di due classi di anzianità aikidoistica distanti tra loro, può differire notevolmente ed ingenerare ancor più dubbi su quale fosse il modo di insegnare e, soprattutto, di praticare del Fondatore.
In cauda venenum, la faccenda viene intorbidita ancor più dalle questioni connesse alle scuole che non conobbero l’Hombu Dojo o che si allontanarono radicalmente dalla sede centrale – tra tutte lo Yoshinkan Aikido di Gozo Shihoda e la Ki no Kenkyukai di Koichi Tohei ed il suo famosissimo strappo del 1974 [vedi] – o dalle accuse mosse da molti al secondo Doshu, Ueshiba Kisshomaru, di aver modificato le tecniche del padre [vedi].
Interludio
Chiaramente la trasmissione diretta e personale di un messaggio – qualsiasi esso sia ed a qualsiasi ambito esso appartenga – non gode mai ed in nessun caso della garanzia totale di integrità, congruenza e corrispondenza tra la propria partenza ed il termine del procedimento.
Anche presupponendo una situazione ideale quanto a metodo pedagogico e capacità didattiche dell’insegnante, una neutralità del contesto che non sollevi barriere di sorta al transito del messaggio e, infine, una superiore capacità empatica del ricevente di acquisire, interpretare, memorizzare e conservare per lungo tempo il contenuto recepito, numerosi esperimenti nell’ambito delle scienze umane e comportamentali hanno dimostrato che svariati elementi anche subconsci influenzano e deviano la linearità ideale del meccanismo, generando varianze minori – ma non per questo non sostanziali – del contenuto recepito rispetto a quello originariamente comunicato.
Esempi significativi sono reperibili facilmente nei contesti più disparati; nel mondo delle koryu o, più in generale, del Budo giapponese, parimenti, essi non scarseggiano: si pensi al Judo d’oggi rispetto a quello praticato con Kano Jigoro ancora in vita o, per ragionare su intervalli di tempo molto più vasti, alla perdita di parte del patrimonio tecnico di scuole secolari come il Tenshin Shoden Katori Shinto Ryu.
Saito Sensei, il Custode
Stanti le premesse accennate sopra, un unico personaggio – troppo spesso censurato o rimosso dalla vulgata più commerciale sulla storia dello sviluppo dell’Aikido – offre garanzie nettamente superiori rispetto a quelle degli altri nel paniere dei cinquanta in merito a trasmissione integrale, coerente e congruente rispetto all’Aikido di Ueshiba Morihei: Saito Morihiro Shihan.
Come noto e riportato dai – sempre troppo pochi – divulgatori che ne hanno delineato le tracce biografiche, Saito Sensei rimase in contatto continuativo e quotidiano con il Fondatore per 23 anni della propria vita – più a lungo di chiunque altro tra gli allievi di O Sensei – assistendo il proprio Maestro come uchideshi in ogni aspetto della vita quotidiana e partecipando, lui solo, agli allenamenti privati del Fondatore stesso.
Egli fu ripagato da Ueshiba con incredibili privilegi, tra i quali quello di costruire la propria casa su un appezzamento di terra donatogli direttamente dal Fondatore, di poter insegnare le tecniche di armi elaborate e rifinite da Ueshiba nel corso del proprio lungo ritiro a Iwama (1942-1969), di vedere approvate da O Sensei in persona le proprie sistematizzazioni dei suburi e dei kata di jo e dei kumitachi e kumijo, nonché della nomenclatura tecnica poi adottata un po’ ovunque nel mondo, di ereditare i titoli di Custode dell’Aiki Jinja e di responsabile (dojo-cho) dell’Ibaraki Dojo costruito dal Fondatore stesso.
La lunghezza e la profondità dell’esperienza condivisa con O Sensei da Saito Morihiro (riconosciuta, onorata e mai discussa da parte di tutti i senpai, compreso l’allora Doshu Ueshiba Kisshomaru, durante la vita di Saito stesso) unitamente alle garanzie di aderenza all’insegnamento originale derivanti dal metodo di apprendimento giapponese (basato soprattutto sull’assimilazione per imitazione del gesto corporeo che non tanto, come in occidente, per comprensione di una previa spiegazione teorica) e dall’indole propositivamente umile e metodica di Saito Sensei, fanno della sua eredità tecnica il messaggio più autorevolmente degno di fiducia quanto ad aderenza all’Aikido del Fondatore stesso.
Il ruolo, sovente purtroppo misconosciuto, di Morihiro Saito Shihan fu di custode dell’insegnamento tecnico originale del Fondatore, nei limiti della natura umana e delle dinamiche della trasmissione orale diretta.
L’Aikido di Iwama oggi
Saito Sensei, in quanto custode dell’insegnamento tecnico di O Sensei, Custode dell’Aiki Jinja e dojo-cho a Iwama, fu, dopo la morte del Fondatore, il padre del cosiddetto Stile di Iwama.
Iwama Style fu un termine che lo stesso Saito Sensei utilizzò spesso per contraddistinguere il metodo pedagogico e didattico da un lato, e tecnico dall’altro (cioé l’insegnamento delle forme solide ko-tai e della pratica kihon, l’integrazione dei movimenti a mani nude con quelli con le armi, l’utilizzo massivo di kiai ed atemi) praticato nel dojo del Fondatore in Iwama rispetto all’Hombu Style, ovvero il modo di praticare più fluido, meno rigoroso e senza le armi caratteristico delle lezioni presso il dojo centrale dell’Aikikai.
Ciò non di meno, Saito Sensei non disconobbe mai la propria filiazione all’Aikikai so Hombu – il quartier generale dell’Aikikai guidato dal Nidai Doshu Ueshiba Kisshomaru e, poi, dal Sandai Doshu Ueshiba Moriteru – e si rifiutò in più occasioni di essere considerato il Soke (il Gran Maestro di uno stile o scuola) dell’Iwama Ryu (la Scuola di Iwama, considerata appunto una scuola – o stile – differente e sconnesso dalla corrente principale dell’Aikido legata all’Aikikai), tanto che per un certo periodo nemmeno il termine Iwama Ryu venne utilizzato preferendo il meno ‘pesante’ Iwama Style.
È un fatto, però – e non è in discussione – che le differenze didattico-pedagogiche tra Iwama-ryu e resto del panorama aikidoistico mondiale traccino un solco profondo che ne caratterizza distintamente gli ambiti di pratica.
Dopo la scomparsa di Saito Morihiro Shihan (maggio 2002) la famiglia di Iwama – come comunemente si autodefiniva all’epoca il piuttosto variegato gruppo di praticanti che si riconoscevano, a livello internazionale, negli insegnamenti di Saito Sensei e dei suoi più stretti allievi occidentali – si spaccò insanabilmente.
Quando il figlio di Saito Morihiro, Saito Hitohiro, oggi Hitohira, si vide costretto ad uscire dall’Aikikai e fondare la propria Scuola internazionale (l’Iwama Shin Shin Aiki Shurenkai con sede centrale a Iwama nell’appezzamento di terreno che venne donato al padre dal Fondatore) una parte dei senpai occidentali – e con loro i rispettivi allievi – seguirono Saito Hitohira quale nuovo Kaicho (caposcuola) riconoscendo in lui il Sandai Soke dell’Iwama Ryu (Ueshiba Morihei Shodai Soke, Saito Morihiro Nidai Soke, Saito Hitohira Sandai Soke), mentre altrettanta parte dei senpai occidentali e dei loro allievi rimase aderente all’Aikikai pur mantenendo una distinzione sostanziale nel metodo pedagogico, cioè preservando gli insegnamenti di Saito Morihiro.
Nel corso degli ultimi anni, entrambi questi gruppi, in occidente (ed in Italia in particolare), hanno iniziato a definire il proprio Aikido come “tradizionale”.
L’Aikido che si dice Tradizionale
Il gruppo italiano più rilevante tra coloro che preservano la filiazione all’Aikikai, nel rispetto e nell’imitazione del comportamento di Saito Morihiro Shihan, è quello incentrato sulla figura di Paolo Nicola Corallini Shihan, uno degli allievi non giapponesi al mondo più vicini a Saito Morihiro, da quest’ultimo nominato proprio rappresentante per gran parte dell’Europa ed autorizzato espressamente ad esaminare e rilasciare gradi in suo nome anche nell’ambito del bukiwaza (tecniche con le armi).
Corallini Shihan è stato un marzialista sempre al centro dell’evolvere dell’Aikido in Italia, ricoprendo ruoli tecnici rilevanti in organizzazioni e strutture di livello nazionale, non da ultima la federazione del C.O.N.I. competente per l’Aikido, l’attuale F.I.J.L.K.A.M.
Per quanto strettamente inerente con l’argomento qui trattato, va ricordato che il maestro Corallini è stato ed è il perno di varie correnti che sono ciascuna l’evoluzione dell’altra e che sorreggono una controparte organizzativo-logistica: vertice della Scuola di Iwama o Iwama Ryu quando essa approdò in Italia, formò l’Iwama Ryu Italy. La denominazione del proprio metodo pedagogico mutò nel corso del tempo in Takemusu Aiki(do) (da cui l’acronimo dell’organizzazione ancora in attività Takemusu Aikido Association Italy, inserita nel contesto più ampio della similare rete Takemusu Aikido Association a livello europeo e mondiale) per giungere, con la pubblicazione dell’ultima versione aggiornata del proprio noto manuale tecnico, ad approcciare la dicitura Iwama Takemusu Aikido.
Nel contesto italiano, sempre più spesso, si è assistito all’abbinamento del Takemusu Aikido alla voce Aikido Tradizionale. Va ben specificato che il lemma tradizionale, in questo contesto, riporta al francese traditionell ed è totalmente scollegato al significato attribuitogli da Hobsbawm in apertura e, invece, vuole significare che l’Aikido proposto da Corallini Shihan segue quanto previsto dalla tradizione (al contrario, ad esempio, di altri percorsi innovativi e di ricerca evolutiva o ibridativa a livello tecnico o didattico nello stesso ambito) nello scopo nobile di preservare quanto tramandatogli da Saito Morihiro Shihan, nella stessa proporzione in cui quest’ultimo preservò quanto insegnato dal Fondatore.
Dopo la rottura dell’Iwama Family e l’uscita di Saito Hitohira dall’Aikikai [vedi], un folto gruppo di senpai occidentali – tra i quali, tra molti, Tristao Da Cunha Shihan ed Alessandro Tittarelli Shihan – assieme a moltissimi dei loro allievi transitarono nell’Iwama Shin Shin Aiki Shurenkai, il cui caposcuola era, ovviamente, Saito Hitohira Jukucho.
Il metodo di Iwama (il programma uchideshi ed il rilascio di certificati di grado dan sia per il taijutsu che per le armi con la dicitura Iwama-ryu) proseguiva nel Tanrenkan Dojo a Iwama mentre i titoli di Ibaraki dojo-cho e Custode dell’Aikijinja venivano restituiti all’Aikikai, così come il controllo del dojo del Fondatore.
Saito Hitohira proseguiva, di fatto, e perpetrava gli insegnamenti del padre Morihiro, mantenendo acceso il fuoco dell’Aikido di Iwama nei modi e nella sostanza.
In Italia il catalizzatore del folto gruppo di praticanti che seguirono – e tuttora lo seguono – Saito Hitohira fu il compianto Alessandro Tittarelli Shihan, il quale conglomerò quest’insieme di aikidoka nazionali in un gruppo interno ed indipendente in seno al settore Aikido dello C.S.E.N. – Centro Sportivo Educativo Nazionale, Ente di Promozione Sportiva riconosciuto dal C.O.N.I. – di cui egli stesso assumeva il ruolo di Direttore Tecnico Nazionale, essendo autorizzato da Saito Hitohira a rilasciare in suo nome certificati di grado dan a livello nazionale ed internazionale. Dal momento della prematura scomparsa di Tittarelli Shihan (settembre 2018), il ruolo di Direttore Tecnico del gruppo – informalmente definito Iwama Shin Shin Aiki Shurenkai Italia – è passato ad Alberto Boglio Shihan, il quale è tuttora in carica.
Per volere di Saito Hitohira Jukucho, l’Aikido della propria scuola viene definito Tradizionale: Dentō Iwama Ryu Aikido o Aikido Tradizionale della Scuola di Iwama.
Sebbene pur questo lemma sia disgiunto dalla concezione di Hobsbawm, derivando dalla traduzione del termine giapponese Dentō il suo significato è più legato al concetto latino di traditio, ovvero di trasmissione diretta. Dentō Iwama Ryu Aikido identifica quindi l’Aikido di Iwama Tradizionale in quanto trasmesso direttamente e completamente dal Fondatore (in giapponese Kaiso Jikiden) a Saito Morihiro Shihan e da quest’ultimo al di lui figlio ed erede Saito Hitohira Jukucho. Dentō, in sintesi, – assieme ad altre diciture recentemente introdotte da Saito Jukucho come il citato Kaiso Jikiden – vuole essere un’indicazione di garanzia circa l’aderenza all’Aikido originale del Fondatore in quanto trasmissione diretta ed incorrotta del suo insegnamento originale.
Il declino della Tradizione
A prescindere, pertanto, dei significati e significanti semantici adottati, il pensiero di Hobsbawm in apertura ci propone un severo ammonimento che non andrebbe sottovalutato: il declino dell’azione sostanziale del praticante (congiuntamente ai possibili fraintendimenti su quale essa realmente sia o, peggio, al passaggio in secondo piano della stessa) porta inevitabilmente alla deformazione delle sovrastrutture – che Hobsbawm chiama “tradizione” – che la circondano.
Da un pensatore profondo e non certo tacciabile di tradizionalismo arriva quindi il monito all’apparenza più conservatore che si possa concepire per lo stato dell’arte: tralasciare o non comprendere il senso di ciò che si pratica – l’Aikido – rende inutili o decadenti tutti gli ammenicoli tradizionali – siano essi fisici o concettuali – di cui amiamo circondarci. Per quanto formalmente rigorosi o innovativamente stimolanti, se perdiamo di vista l’efficacia e l’efficenza del patrimonio tecnico della nostra disciplina o se concediamo deroghe rispetto a quanto ci sia possibile ricostruire del metodo del Fondatore, finiremo a fare altro rispetto all’Aikido.
Saremo sempre e solo degli sciocchi gaijin che giocano a cappa e spada travestiti da samurai. E il Budo non è un gioco.