Scrive bene sulle Segnalazioni del II Piccolo di oggi – 21 febbraio 2021 – Chiara Vigini in merito alle sorti del mancato Museo Istriano a Trieste. La sua lettera, sebbene mi si dica aver subito tagli redazionali per esigenze di impaginazione, va letta e meditata con attenzione poiché tocca il vero nervo scoperto della realizzazione, mai perfezionata, di un Civico Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata a Trieste: deve essere questo un ulteriore non luogo della Memoria – alla pari del Magazzino 18, prossimo Magazzino 26 (Simone Cristicchi dovrà forse cambiare titolo al suo celeberrimo spettacolo teatrale?) – delle tragiche vicende del Confine Orientale d’Italia al termine del secondo conflitto mondiale o dovrebbe, piuttosto, incarnare esso, di fronte alle sfide della contemporaneità e dell’innovazione tecnologica, della didattica e della testimonianza storico-etnografica, l’apice di un’istituzione scientifica moderna e dinamica che rappresenti, senza scordare il pur tragico passato, una cultura ed una civiltà nella propria complessa e poliedrica interezza?
È ben nota l’attenzione riservata da chi scrive, nel corso della propria più che decennale attività nel cosmo dell’associazionismo giuliano-dalmata, alla giusta Memoria delle tragiche sventure che il Secolo Breve riservò alle genti dell’Adriatico Orientale, ed essa non è in discussione.
È però sempre stata mia ferma convinzione che la principale e più critica sfida che gli Esuli – al volgere del loro naturale ciclo di esaurimento biologico – avrebbero dovuto affrontare e, auspicabilmente, saper vincere fosse quella di riuscire, similmente a quanto abilmente fatto dagli Ebrei in relazione alla tragedia della Shoah, a far passare il testimone dai protagonisti ai ricercatori, a trasformare memorialistica in ricerca scientifica, facendo evolvere l’associazionismo in enti e strutture di ricerca d’avanguardia, accreditate sul piano scientifico internazionale.
Per questo era nato l’I.R.C.I. – Istituto Regionale per la Cultura Istriana, poi Istriano-fiumano-dalmata – e i pur difficoltosi esordi premonivano un futuro solido ed incastonato nelle realtà di punta della ricerca scientifica di settore: varietà di collaboratori e di idee, progetti di cooperazione con enti universitari nazionali ed esteri, molteplici ambiti di indagine scientifica, svariata produzione tecnico-letteraria sulle più varie facce che la cultura di un popolo possa presentare allo studioso ed al pubblico.
Purtroppo, come più volte paventato nel primo quindicennio del nuovo secolo, si constata oggi il sostanziale e mesto fallimento di questo alto obiettivo: il testimone non è passato, la giovane istituzione scientifica non ha preso il volo, sono state mancate o, addirittura, schivate importanti opportunità ed occasioni. L’I.R.C.I. si è accasciata dapprima in una eterna Fabbrica del Museo – curando la faticosa ristrutturazione dell’edificio di via Torino a Trieste, attuale sede di entrambi gli spazi espositivi e della sede d’Istituto a discapito di ogni produzione o attività di ricerca – per poi appiattirsi in una struttura ibrida, la quale vorrebbe chimericamente possedere parvenze istituzionali ma che soggiace completamente a modi e logiche meramente associazionistiche.
Altrove gli Esuli giuliano-dalmati non hanno saputo far nascere o crescere molto di più: il Museo-archivio storico di Fiume in Roma? Il Centro di Documentazione Multimediale? Il Centro Giuliano di Documentazione? Realtà povere e sterili in confronto, tanto per citare, al Museo della Comunità Ebraica “Carlo e Vera Wagner” di Trieste o, ancora a mero titolo d’esempio, l’Istituto Regionale per la Storia della Resistenza e dell’Età Contemporanea del Friuli Venezia Giulia.
Commentando il futuro walzer museale che muoverà, fra l’altro i resti delle masserizie all’interno dell’ex Punto Franco Vecchio di Trieste con l’annesso spostamento di focus – sia da parte del pubblico che degli stessi “curatori” dell’I.R.C.I. – sulla nuova sede espositiva dedicata all’Esodo [vedi], Vigini oggi scrive: Prevale dunque la visione di un’Istria legata […] a un’esperienza tra le più traumatiche e tragiche della sua vita millenaria: l’esodo istriano fiumano e dalmata nel Secondo dopoguerra. […] Sarà un museo per piangersi addosso, ancora, per parlare alla pancia e basta, senza che questo muova a pensieri più ampi, più profondi, più lungimiranti. Più attuali.
Amaro ma vero. Nel mondo degli italiani dell’Adriatico Orientale profughi in patria esistono le associazioni: loro natura e loro compito – certamente e in parte anche loro limite naturale – adorare la cenere (mi si passi la citazione mahleriana) di un mondo che non c’è più; ai musei ed alle istituzioni culturali spetterebbe invece il compito di custodire il Fuoco della cultura che vogliono rappresentare. Spetterebbe.