Christpher Harding titola il proprio lavoro, nell’edizione italiana (Hoepli, Saggi, Milano, 2020, ISBN 978-88-203-9568-1), Giappone. Storie di una nazione alla ricerca di se stessa dal 1850 ad oggi e, nel fare ciò, preannuncia molto chiaramente ai suoi lettori tema, contenuto e scopi del proprio brillante e piacevole saggio.

Cresciuto a Londra e con alle spalle un curriculum di studi specifici all’Università di Oxford, Harding è attualmente docente di storia asiatica all’Università di Edimburgo ed è prolifico autore di studi e ricerche, nonché giornalista – ha un trascorso anche nella redazione dell’Asahi Shimbun – e collaboratore ed autore della BBC. Storico culturale con un’eclettica specializzazione in Giappone moderno, India ed Inghilterra, si dichiara interessato ai temi legati al connubio tra religione e spiritualità, filosofia, letteratura e salute mentale ed è curatore dell’interessante blog in lingua inglese The Boredom Project, dedicato, appunto, allo studio di come religione, spiritualità, politiche sociali e psicologia possano trovare zone di intersezione nella vita quotidiana inglese e di altri Paesi, tra i quali, appunto, anche il Giappone.
I poliedrici campi di interesse dell’autore emergono nettamente dalla lettura del suo interessante saggio, ben strutturato su sei macrosezioni temporali (1850-1910, 1900-1930, 1920-1940, 1940-1960, 1950-1990 e 1990-2010) a loro volta suddivise in capitoli – per un totale complessivo di 18 – e corredato di un azzeccato apparato iconografico e da puntuali indici, note bibliografiche e tabella cronologica.

Il volume mantiene egregiamente la promessa del titolo, affrontando progressivamente la storia del Giappone dal primo contatto con gli occidentali dopo l’isolamento del suo lungo medioevo ai giorni nostri, per dimostrare come l’identità della terra del Sol Levante sia un costrutto complesso e sfaccettato, molto meno legato agli stereotipi sulla Tradizione che gli occidentali sono adusi abbinargli e, invece, stretto in un morboso rapporto simbiotico con le dinamiche storico-socio-politico-culturali dell’Europa e del Nuovo Mondo.
Nel fare ciò, il testo corre agile su binari piacevolmente inusuali quanto a ritmica degli accadimenti storici, abbinamenti a fatti di costume, politica, socialità, storia del diritto e religione, schivando opportunamente i troppo facili cliché sul passato – ed anche sul presente – giapponese: episodi comunque importanti come la rivolta di Satsuma, i Kamikaze della seconda guerra mondiale, Mishima o la modernizzazione sfrenata al volgere del millennio, per citare alcuni esempi, pur giustamente senza essere banditi o censurati dall’autore, non occupano più del giusto nell’economia complessiva dell’opera. Ne deriva una lettura fresca, sorprendente, per nulla scontata ed assai interessante sulla costruzione identitaria del Giappone moderno e coevo adatta, comprensibile e piacevole anche per i non addetti ai lavori.
Uno dei fili tematici che si intessono lungo l’intero tessuto del volume – che chi scrive trova di notevole interesse e spunto – si dipana sulla complessità di una percezione che gli Altri hanno avuto del Giappone e che, per opportunità politica e storica, la stessa classe dirigente nipponica moderna ha voluto re-importare e far assimilare ai propri stessi cittadini, tanto da rendere spesso superficialmente interiorizzati e digeriti dei comportamenti e delle consuetudini originate, in realtà, da banali stereotipi concepiti all’estero.
Nel fondamentale capitolo Raccontare Storie – riferito al periodo 1990-2010 – Harding affronta anche l’impatto di scritti come Il Crisantemo e la Spada, di Ruth Benedict (che, come noto, fu un lavoro strumentale e banalizzante commissionato dalle autorità militari americane nel 1941 in previsione dell’auspicata occupazione postbellica del Giappone, per consentire alle forze che avrebbero dovuto governare il caos sul suolo dell’Imperatore di accedere ad un vademecum antropologico mirato a capire i giapponesi e, quindi, poter operare le ‘giuste’ scelte) o come quelli dello psicanalista Doi Takeo o dell’antropologo Nakame Chie o, ancora, del sociologo Ezra Vogel – tutti nel solco dell’opera della Benedict -, che offrivano proprio agli stessi giapponesi un salvagente identitario d’importazione che potesse schivare sufficientemente i sensi di colpa per il passato imperialista ma che, contemporaneamente, garantisse conformità ai nuovi dettami antimilitaristi ed antiespansionisti derivanti dall’imprinting dell’amministrazione americana postbellica. Scrive Harding:
Per i leader [giapponesi] del dopoguerra, c’era un’ovvia utilità politica nel convincere la popolazione della giustezza e della bellezza, sin dall’antichità, di una società che rifiutava il conflitto e comprendeva come relazioni sociali asimmetriche offrissero benefici alle varie parti in causa. Promuovere quella stessa immagine all’estero era un modo efficace di far sì che avessero successo anche in patria, dato che i media giapponesi seguivano da vicino le discussioni straniere sul paese. Una versione condensata del lavoro di Nakane venne distribuita alle ambasciate giapponesi in tutto il mondo proprio a questo scopo, mentre l’idea di armonia gerarchizzata divenne uno degli elementi della diplomazia giapponese – assieme alle dimostrazioni della cerimonia del tè, riproduzioni dei contorni perfetti del monte Fuji, allestimenti di ikebana e più avanti l’impiego di talentuosi artisti del sushi in alcuni delle missioni straniere più importanti.
Leggendo queste righe, che sono un semplice ma semplificativo esempio, si potrebbero aprire delle interessanti digressioni legate più specificatamente al mondo del Budo o dell’Aikido – ad esempio su come l’Aikido rimodellato dal Nidai Doshu Kisshomaru Ueshiba si sia dimostrato vincente poiché più armonico e ‘pacifico’ di altre forme più rigorosamente tradizionali – ma quel che preme evincere è come emerga prepotente il riferimento agli stereotipi identitario-culturali che rappresentano la base strutturale della conoscenza del Giappone di moltissimi cosiddetti esperti ed appassionati che ancor’oggi trattano, pubblicano, discorrono sulle cose di laggiù. Come troppo spesso accaduto, ancor oggi l’Occidente vuol troppo spesso far vestire al Giappone ed ai giapponesi gli abiti distortamente idealizzati che gli occidentali medesimi ritengono essere quelli della vera Tradizione orientale: è accaduto, ad esempio, col giapponismo otto-novecentesco, è successo con la lettura parziale e faziosa di Mishima nell’Italia degli anni ’70 ed ’80 e con la sua successiva rilettura più completa e calzante, accade oggigiorno con i tuttologi ed i santoni che impestano le sale conferenze e le nostre palestre.
In relazione a tutto questo, si può ben dire che il lavoro di Harding rappresenti un ottimo quanto inedito manuale d’approccio all’identità culturale e sociale del Giappone moderno, certamente frutto di antiche radici, altrettanto certamente innestate da pesanti influenze ed interferenze della modernità occidentale.
L’unica grande pecca dell’edizione italiana Hoepli, va sottolineato a malincuore, è la mancata revisione della traduzione di Lorenzo Marinucci – realizzata per giunta con il contributo del Segretariato Europeo per le Pubblicazioni Scientifiche – che pare gravemente lacunosa o del tutto assente: allocuzioni come 150.000 truppe (più volte ripetuto in vari contesti nel rendere, si crede, un 150,000 troops in lingua inglese); medium usato assai frequentemente come singolare di media, organi di stampa; desiderio di voler ritornare in casa riferendosi alla volontà di rientrare a casa delle truppe stanziate in Manciuria; il neologismo anglosassone Abenomics – riferito alle linee di politica economica di Shinzo Abe – lasciato nel testo italiano senza alcuna spiegazione a corollario, o un paragrafo in cui manca palesemente un’intera porzione di frase, sono solamente pochi tra i ben più numerosi guasti che rendono la scorrevolezza del testo italiano piuttosto penosa e sminuiscono il tono di uno studio certamente assai più meritevole.