
Il sempre interessante blog in lingua inglese Budo Inochi ha proposto l’articolo di Kai Morgan On martial artists obssesed with being “Sensei”, liberamente leggibile in lingua originale, che tocca alcuni nervi scoperti della comunità “marziale” occidentale, sempre più ricca e sovraffollata di insegnanti improvvisati e sedicenti maestri. Da sempre attenti a questa tematica così sensibile, si è ritenuto di voler riprendere le validissime considerazioni dell’articolo originale, completandole con poche ulteriori chiose direttamente collegate alla realtà che ci circonda.
Il problema di cui si disquisisce è legato a quei praticanti di arti marziali che si sentono, presentano ed atteggiano troppo convintamente come “maestri”, senza averne evidentemente doti, qualità e, in ultima analisi, titolo.

E’ necessario premettere che il termine in questione – maestro – è spesso abusato ed utilizzato impropriamente in occidente ed in Italia o, quantomeno, è soggetto a fraintendimenti più o meno involontari e capziosi. “Maestro” è innanzitutto un titolo legato a gradi e diplomi che, a seconda delle differenti discipline marziali e della federazione o ente di promozione di riferimento, viene ufficialmente rilasciato con apposito diploma ed attesta, in sintesi, un determinato livello tecnico-curricolare raggiunto dal praticante che lo esibisce; tale riconoscimento burocratico-formale, che spesso attesta anche l’avvenuto raggiungimento di competenze non marziali acquisite tramite appositi corsi formativi promossi da enti e federazioni in ambito sanitario, psicologico, ludico-motorio e motivazionale, è sovente obbligatorio per poter insegnare o dirigere una palestra di arti marziali. In secondo luogo, quello di maestro può essere un ruolo rivestito dal praticante, spesso come derivazione di quanto sopra elencato, che guidi una palestra o una scuola marziale: trasposizione in questo caso del concetto giapponese di dojo-cho – cioè guida del dojo – piace riferirsi a questa figura con una personale allocuzione impropria che è piccolo maestro. Spesso, infatti, l’insegnante del proprio dojo altri non è che un ‘semplice’ praticante più esperto che sta ancora perfezionando il proprio studio sotto la guida di un vero Maestro – il grande maestro, sia egli un direttore tecnico a livello nazionale, uno Shihan o il caposcuola – che rappresenta, ovviamente, guida e riferimento per lui stesso e per tutti gli allievi del suo dojo. In quest’ottica, il piccolo maestro è una figura cui fare riferimento costante nella pratica quotidiana in dojo ma non può e non deve essere esaustiva ed, anzi, periodicamente è necessario e consigliato attingere conoscenza dalla fonte primaria di cui essa è tramite, interprete e ripetitore.

Vi è infine il Maestro, il Sensei, il grande maestro nella logica del nostro ragionamento, che è figura di riferimento tecnico e umano per una molteplice varietà di suoi allievi diretti ed indiretti: egli porta in sé le caratteristiche delle due precedenti tipologie, migliorate e potenziate, e vi unisce altre doti straordinarie e fuori dal comune che gli consentono di essere guida ed esempio non solo e non tanto per perizia o conoscenza tecnica né, meno che mai, per mera posizione o titoli, ma, al contrario, rango e prestigio derivano delle sue doti interiori innate ed eccezionali, sviluppate e forgiate nel corso di innumerevoli anni di studio, disciplina ed approfondimento. Di Maestri in tale senso il praticante ne incontra molto pochi sulla Via ed essi sono un bene raro e prezioso. Nell’Aikido Tradizionale della Scuola di Iwama o Dento Iwama Ryu Aikido vi è il Kaicho, Sensei come lo si chiama familiarmente all’interno della Scuola, Saito Hitohira; Waka Sensei suo erede e successore, Morihiro Saito Nidaime; e vi sono poi alcuni Shihan, come ad esempio Tristao Da Cunha, e pochi Senpai che rientrano, loro soli, in questa categoria.

Il personaggio affetto dai mali citati da Kai Morgan nel suo articolo è invece facilmente identificabile in un piccolo maestro, responsabile di un dojo nel quale gioca a fare l’uomo saggio e onnisciente; è molto triste constatare come il panorama marziale che ci attornia sia costellato da simili meste figure che appestano l’ambiente e rovinano, troppo spesso, gli ignari principianti che vi si affidano, facendo sprecare loro tempo ed energie su sentieri senza fine e senza uscita.
Anche per aiutare gli impreparati a riconoscere questi falsi maestri, ripercorriamo brevemente i sette fattori che, a detta di Budo Inochi, possono portare un praticante a traviarsi – e, ancor peggio, a traviare i propri seguaci-, con l’aggiunta di alcune considerazioni derivanti dall’esperienza personale.
1. Attaccamento all’ego
In questa categoria l’originale cita coloro che amano voler guidare gli altri e bramano il potere, ricordando che come ciò possa non essere necessariamente un male, quando il tutto abbia limiti netti e precisi. Molti dojo sono di fatto guidati da insegnanti che vogliono controllare ogni aspetto della vita marziale – e non – dei propri seguaci, senza lasciare loro autonomia, libertà di movimento e scelta o criterio e possibilità di giudizio, andando ben oltre alla normalità di un sistema che, in ogni caso, è e resta gerarchico-piramidale. Spesso vengono inventate di sana pianta norme e regole che non corrispondono ad alcunché di concreto nella scuola di appartenenza o nell’etichetta e nel reigi della cultura orientale di riferimento. Le palestre divengono circoli chiusi al confronto ed alla critica costruttiva, in cui il “maestro” si arroga persino il diritto di decidere in nome e per conto dei propri allievi non solamente in ambito prettamente tecnico. Sintomo lampante di una condizione connotata da un disequilibrio allarmante del “maestro” è quella, diffusissima, nella quale vengono distribuiti titoli e ruoli interni al dojo che, nella realtà dei fatti, non corrispondono ad alcuna reale autonomia individuale e nulla, di fatto, si muove se non nei modi, tempi e direzioni che non siano già quelle volute sin dall’inizio dal “maestro” stesso. La democrazia dichiarata e sbandierata a gran voce è solo apparente e si scontra quotidianamente con scavalcamenti, imposizioni e decisioni unilaterali spesso prese con l’ausilio del sotterfugio. E’ decisamente più sano ed onesto un ambiente che coinvolga e stimoli tutti i praticanti indistintamente, delegando ove opportuno e promuovendo iniziativa e intraprendenza – in fin dei conti il percorso marziale dovrebbe essere una via esperienziale di ciascuno – senza nascondere o dissimulare l’autorità gerarchica indiscutibile del dojo-cho.

Kai Morgan individua poi due attitudini erronee che connotano chi non riesce a staccarsi dal proprio ego durante la pratica: gli allievi più interessati ad insegnare a chiunque stia loro intorno ciò che credono già di sapere piuttosto che a seguire ed imparare quello che viene insegnato dall’istruttore in quel momento, e coloro che, al grido metaforico di “ecco come lo facciamo noi”, eseguono tecniche totalmente differenti e slegate da ciò che si sta praticando sul tatami.

Senza bisogno di ricorrere alla storiella zen evocata dal blog – quella della coppa già piena in cui il liquido versato fuoriesce, metafora dell’ego che impedisce all’insegnamento di essere assimilato – l’esperienza quotidiana nell’ambito marziale occidentale è stipata di esempi consimili, dei quali almeno due sono oltremodo significativi.
Il primo, sottilmente affine al praticante evocato da Morgan, è colui il quale si presenta ad un seminario e, udito il nome della tecnica proposta in quell’occasione dall’insegnante, non si sforza di riprodurre quanto gli viene insegnato al momento – giusto o sbagliato che ciò sia nella sua personale e legittima scala di valori e di giudizio – ma attinge mentalmente al proprio database personale ed esegue la tecnica che lui conosce con quel nome, nei modi e con le finalità a lui più familiari e consone, rovinando spesso la pratica al suo partner incidentale e dimostrando la propria carenza di apertura mentale e di urbana cortesia.
Il secondo, ben più grave anche per le conseguenze e gli imprinting che genera, è l’insegnante che – ricolmo dell’eco ridondante del proprio “io-io-io” – si permette di insegnare nel suo dojo le tecniche della scuola e dello stile di riferimento a modo proprio, chiosando la spiegazione con un nefasto “il maestro la propone in questo modo ma io ritengo si possa fare anche e soprattutto in questa maniera qui”. Nelle arti come l’Aikido di Iwama in cui la tradizione – intesa come trasmissione diretta ed inalterata della tecnica originale da maestro ad allievo – è il perno di garanzia contro il deviazionismo, l’inefficacia tecnica e l’adulterazione del messaggio originale, un simile atteggiamento è quanto mai nocivo e devastante.
2. Il mito sull’insegnamento quale miglior modo di imparare
Pur concordando sul fatto che l’insegnare qualcosa aiuti a comprenderla meglio e, quindi, in parte l’affermazione sia vera, l’articolista di Budo Inochi mette in guardia rispetto agli assoluti, di cui paventa l’estremismo: non esiste un “miglior” modo di imparare, esistono molteplici approcci che, ci si permette di aggiungere, sono anche funzione delle caratteristiche e del patrimonio di conoscenze del discente.
Inoltre, a nostro avviso, prima di insegnare bisogna anche e soprattutto conoscere la materia che si vuole trasmettere. La convinzione, dura a morire, che l’insegnamento sia, appunto, il miglior modo per imparare genera mostri in coloro che ritengono di dover spronare ad ogni costo i propri allievi al raggiungimento rapido della condizione di istruttore. La carriera facile e veloce in ambito marziale, a nostro avviso, è garanzia di una cosa soltanto: improvvisazione, immaturità e superficialità. Inoltre essa, invece di indurre l’allievo all’aspirazione a modelli etici di umiltà, pazienza e moderazione, lo sprona all’arroganza ed all’arrivismo. Gratifiche esteriori quali cinture colorate, diplomi e hakama – per non parlare delle ben più gravi regalie a livello di gradi dan -, quando elargite in fretta a tali fini traversi ed erronei, sono l’esempio lampante del malessere che attanaglia troppi tra i nostri dojo.
3. Sovrastima dell’effetto benefico nel miglioramento del sé derivante dal ruolo dell’insegnante
Legato a doppia mandata al punto precedente, questo terzo assunto viene efficacemente smontato dal nostro articolista notando come nessuno dei presunti benefici sia realmente connesso al fatto di essere un insegnante.
Il concetto può essere rielaborato e riletto, senza alterarne il fondamento: se è vero che colui che voglia intraprendere il vero percorso sulla via del Budo dovrebbe prepararsi a prove e sacrifici, fatica e lavoro su sé prima che sugli altri e, di conseguenza, ottenere dopo anni di fatiche un reale mutamento migliorativo su molteplici aspetti del proprio carattere, è altresì vero che molti dei “maestri” sulla piazza non hanno mai percorso quella strada umile e faticosa ma, al contrario, hanno perseguito altri fini e scopi, acquisendo per costanza ed esperienza ‘solamente’ una discreta conoscenza tecnica, fatto che non fa di loro – al contrario di quanto vogliano spesso dimostrare – dei saggi o degli illuminati.

Il mondo marziale occidentale è tragicamente stracolmo di sedicenti guru che elargiscono sapienza tecnica – generalmente in ogni ambito dello scibile marziale, dal grappling alla difesa personale – etica, morale, filosofica e culturale – pure questa su ogni aspetto afferente al cosmo di riferimento, sia esso giapponese, cinese o tailandese – dall’alto della loro millantata conoscenza superiore.
4. Fallimento nell’apprezzare il valore dell’essere allievo
Essere allievo – di un vero marzialista, di un vero maestro, precisa Morgan – può essere una vocazione più alta che non quella di aspirare ad essere un “sensei“. Affermazione del tutto sottoscrivibile e assolutamente valida, tanto più nell’ambito del Dento Iwama Ryu Aikido, contesto in cui dovrebbe troneggiare l’esempio immortale di Saito Morihiro, il grande Maestro che visse una vita da allievo, da Otomo di O Sensei, divenendo – in virtù proprio di tutto ciò – suo unico e vero erede tecnico: grande nell’umiltà e nel servizio, anche dopo la scomparsa di Ueshiba nel 1969.

Risalta quindi ancor più fragorosamente l’atteggiarsi a maestri di troppi praticanti che sopravvivono nel sottobosco e nelle periferie dell’Aikido vero – quello praticato, sudato, vissuto con sincerità – generalmente detentori di gradi non superiori agli yudansha: né kodansha, ne shihan. Di certo non Sensei.
5. Isolamento e frammentazione nella società occidentale: narcisismo
Le ottime argomentazioni dell’articolista – facilmente intuibili da ciascuno – sono più che mai adatte ad un ambiente che si presta così tanto, qualora falsato da attitudini inique e mancanza di veri modelli di riferimento, a fomentare lo spirito narciso ed edonista dei nostri tempi. Giocare il ruolo del sensei, con tutti gli orpelli fisici (indumenti, gradi, terminologie ed etichetta) e metafisici che ne conseguono, è una via diretta ed immediata alla facile coltivazione dell’ego più deleterio, potenziata dalla multimedialità della società contemporanea.
Non mancano esempi di strutture e palestre “one-man-band” dove tutto, spesso a partire dal dominio del sito internet o dal nome dell’organizzazione, lascia spazio, luce e riflettori al “maestro”, soffocando la collegialità associativa, l’identità e la personalità degli altri istruttori e collaboratori e, non per ultimo, il ruolo e l’importanza dei singoli allievi, sovente diluiti ad arte in un non meglio definito “gruppo” saldamente e quasi palesemente incardinato sul perno fondamentale ed imprescindibile del capo di turno.

Essere maestri, come viene spesso ribadito da più autorevoli fonti, significa sposare innanzitutto lo spirito di servizio e di sacrificio, piuttosto che non cedere alla facile seduzione della foto e del ruolo fascinoso e dannato di ombelico del dojo. Giocando facilmente sui preconcetti fantasiosi del mondo occidentale circa la visione orientale di lealtà, onore e fedeltà, molti figuri approfittano dell’ingenua buonafede di troppi principianti che mai potranno avere sereno accesso all’arte che credono di stare praticando, perennemente offuscati dal filtro distorcente del loro “maestro”.
6. Il ruolo dei social media nell’abbassare gli ostacoli al divenire “insegnante”
Un tema di quantomai vitale importanza nel moderno mondo delle fake-news è quello legato all’odierno e facile accesso ad una vastità di dati – nel caso specifico a temi inerenti l’arte marziale di interesse – in cui la maggioranza di essi (riferimenti improvvisati, falsi, non validi o del tutto superati o, ancora, non genuini o errati) preclude l’accesso a fonti di informazione valide ed efficaci, consentendo di conseguenza a chiunque di spacciarsi per “maestro” di qualcosa senza soffrire troppo della concorrenza dei veri esperti ma, anzi, addirittura minando per contro la loro autorevolezza e visibilità multimediale.
A fianco delle considerazioni dell’articolo originale, andrebbe aggiunto il tema dell’analfabetismo funzionale e di ritorno che dilaga oggigiorno su una solida base di relativismo assoluto, sovrapposto alla distanza culturale dell’occidentale medio dalle questioni “orientali”, con il risultato di azzerare quasi del tutto le normali barriere che dovrebbero sorgere dinnanzi alle millanterie ed alle impresentabilità dei personaggi che popolano il sottobosco marziale della nostra società.
Se, infatti, chiunque di noi occidentali, grazie alla vicinanza culturale a discipline quali il nuoto o la musica, per esempio, sarebbe in grado di riconoscere facilmente ed a colpo d’occhio un nuotatore agonista o un maestro violinista rispetto ad un improvvisatore spregiudicato – pur magari non essendo esperto e, quindi, forse non riuscendo a cogliere le differenze tra un geniale artista o un atleta olimpico da altrettanti praticanti di capacità semplicemente medio alta -, molti, al contrario, non sono capaci di comprendere con facilità se l’esperto di difesa personale, il guru di yoga tantrico o il maestro di scherma tradizionale giapponese che gli si para d’innanzi siano effettivamente degli esperti di alto livello o dei risibili impostori.
Nel Budo tradizionale, poi, in cui non esistono forme competitive o di gara, si rischia troppo spesso di voler giudicare la bravura dell’insegnante con il metro inadatto dell’esperienza sportiva occidentale, a noi più consona e familiare, sbagliando clamorosamente.

Ecco che a coloro che vogliano spacciarsi per grandi esperti, giocare la carta del sensei di arti marziali risulta certamente meno arduo che non spacciarsi per grandi musicisti, atleti o campioni di scacchi, tutti ambiti in cui la resa dei conti – che in ogni caso arriverebbe – sarebbe quantomai rapida ed immediata.
7. L’insegnamento come punto di autorealizzazione del sé
Parafrasando Kundera, Budo Inochi individua nelle seguenti tre motivazioni la spinta essenziale a proiettare sé stessi in attività che portino ad una forma di supposta autorealizzazione, come ad esempio l’insegnamento delle arti marziali:
- Un elevato livello di benessere generalizzato, che consente alla gente di dedicarsi ad attività totalmente inutili;
- Un elevato livello di atomizzazione della società con un conseguente generale isolamento degli individui;
- L’assenza di drammatici cambiamenti nella vita sociale del paese.

Non volendo competere con la profondità dei pensieri del grande Milan, riteniamo di voler aggiungere una considerazione che calca il solco della banalità del male di “voler essere sensei“: anche in virtù di quanto detto sinora, raggiungere una certa abilità – non maestria, appunto – nelle arti marziali è relativamente facile oggidì. Sono necessari un certo numero d’anni di perseveranza ed un gruzzoletto da investire in seminari e corsi d’aggiornamento per accumulare un pochino d’esperienza e molti diplomi. Con questa semplice cura quasi chiunque sarà in grado di sentirsi avanzato, esperto, superiore al principiante nuovo arrivato sul (proprio) tatami (occidentale). Ecco che la tentazione a scivolare nel narcisismo e a deragliare con comodità ed agio in quell’auto-realizzazione posticcia che l’insegnamento in un piccolo dojo porta e che non si è, magari, riusciti a concretizzare nella vita reale, è tremendamente attraente. E molti, troppi, vi hanno ceduto, restandone sedotti.
Fortunatamente molti dojo, in occidente ed in Italia, sono sani e vengono guidati da allievi che ancora ritengono di stare imparando e di essere, pertanto, in cammino sulla Via calcando le orme di un Maestro; le considerazioni di cui sopra, certamente crude e criticabili ma, si teme purtroppo, piuttosto concrete e reali [l’ottimista crede di vivere nel migliore dei mondi possibili; il pessimista teme che sia vero], si auspica possano essere utili quale fonte e spunto di riflessione e meditazione per i praticanti che si trovino in difficoltà. Il peggior fallimento dei tanti fake-sensei – oltre a quello primario nei confronti di loro medesimi – consiste proprio nel traviare ignari principianti che, alla fine, smetteranno di praticare, mantenendo un pessimo ricordo non del singolo ma, sventuratamente, dell’Arte, della Scuola e dei suoi praticanti.
@EnricoNeami