Relazioni storiche tra Trieste e il Giappone.
Trascrizione dell’intervento a cura ti Enrico Neami, vicepresidente Yūdansha Kyōkai Iwama Aikidō Trieste – Trieste, Sistiana – 9 maggio 2015
Buonasera e benvenuti a tutti, a nome degli organizzatori e dei curatori della conversazione di stasera, che si vede inserita nel programma di In Primavera a Trieste!, ideato e promosso dalla Cooperativa Agricola Monte San Pantaleone.
Oltre al doveroso ringraziamento all’ATI SottoSopra, che ha concesso il magnifico sito dei locali ex-AIAT di Sistiana quale splendida location per l’intero evento, è mio piacere ricordarvi che la giornata di approfondimenti di oggi è anche frutto del lavoro dell’associazione sportiva dilettantistica Yūdansha Kyōkai Iwama Aikidō Trieste (YKIAT), della quale mi onoro peraltro di essere il vicepresidente. L’associazione promuove in primis lo studio dell’Aikido tradizionale della scuola di Iwama, o Dentō Iwama Ryu Aikidō, rappresentato e guidato a livello internazionale da Saito Hitohira Juku-cho ed in Italia, in seno al Centro Educativo Sportivo Nazionale (CSEN), da Alessandro Tittarelli Shihan. A completamento del suo filone di attività primario, YKAIT sviluppa ed approfondisce lo studio di numerosi e molteplici aspetti culturali legati nel modo più vario ed ampio al Giappone, alla sua storia, alle sue tradizioni ed alla sua cultura.
Il Maestro Michele Marolla, al termine di questa chiacchierata, avrà modo di introdurvi con una dimostrazione pratica in che cosa consista, in pratica, l’Aikido di Iwama, mentre nel corso di questo intervento faremo solamente alcuni cenni all’arte marziale ed al suo geniale Fondatore.
I temi che si andranno ad affrontare sono tutti assai peculiari, complessi ed interessanti e meriterebbero spazi e tempi più opportuni e proporzionati per un adeguato approfondimento, nonché l’intervento diretto di alcuni studiosi che, nei rispettivi campi, hanno prodotto e pubblicato in sede accademica contributi di ricerca originali ed inediti: si pensi, per citarne solamente alcuni, a Silvia Zanlorenzi, Piero Delbello, Margherita Gamba.
L’idea dalla quale è nata questa serata, invece, partiva da un approccio necessariamente meno accademico e maggiormente divulgativo sull’onda – sulla grande onda, sarebbe il caso di chiosare – della bella esposizione La Grande Trieste, allestita dai tecnici dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste presso il Salone degli Incanti di Trieste e che rimarrà visitabile sino al 21 giugno 2015.
Ci si era infatti resi conto che, pur considerando appieno i limiti fisici e concettuali di una simile mostra, ed anche del contenitore architettonico che la ospitava, risultavano assai flebili o quasi assenti – mi si consenta – i cenni al giapponismo triestino ed al legame, rilevante non solamente nella dimensione cittadina del fenomeno ma, addirittura, su scala europea, tra Trieste ed il Giappone.
Prima di procedere, in ogni caso, pare utile rinfrescare una breve quanto sintetica pennellata sulle periodizzazioni della storia giapponese e sulle differenze che, soprattutto agli occhi dei profani, appaiono tra i periodi storici della terra del Sol Levante e quelli cui siamo più familiari in Europa.
L’evoluzione storica giapponese, infatti, può essere frazionata e scandita, secondo una delle classificazioni più comunemente adottate a livello internazionale, in grandi intervalli di tempo detti Età, a loro volta suddivisi in periodi o epoche.
Ecco la nota classificazione proposta dall’archeologo Charles Keally:
- Età preistorica (50/35.000 a.C. – 710 d.C.)
- Età classica o antica Kodai (710 d.C. – 1185 d.C.)
- Età medievale Chūsei (1185 d.C. – 1573 d.C.)
- Età premoderna Kinsei (1573 d.C. – 1868 d.C.)
- Età moderna Gendai (1868 d.C. – presente)
Altro modo di calendarizzare la storia del Giappone, poi, è quello delle Ere o Nengō, ciascuna delle quali prende il nome dall’imperatore in carica e numera l’annualità sulla base dell’anno di regno.
Agli occidentali contemporanei tali metodi di datazione possono apparire astrusi e complessi, ma il popolo degli storiografi e degli archivisti, ad esempio, ben sa come anche in occidente, nelle nostre stesse terre, sino a non troppo tempo fa siano stati adoperati metodi cronologici e metrologici forse persino più bizzarri e complicati.
Nell’ambito giapponese, ciascuno dei citati grandi periodi, e dei loro sottogruppi, presenta agli occhi dello studioso, del ricercatore o dell’appassionato rilevanti differenze caratterizzanti i singoli metodi di produzione, le relative sfere di influenza geopolitca, negli assetti politici ed istituzionali e, ovviamente, negli aspetti connessi al mondo socio-culturale.
È peraltro vero che, al contempo, agli occhi del non addetto ai lavori, la storia del Giappone si suddivide, semplicisticamente, in macrogruppi ufficiosi – scientificamente inconsistenti – che semplificano molto la situazione: un’epoca preistorica piuttosto nebulosa ed assai legata ad una mitologia quasi arcana, un lunghissimo medioevo caratterizzato dalla presenza belligerante di guerrieri samurai armati di spada, con cavallo ed armatura, geishe, castelli e corti principesche o imperiali, ed infine un’epoca contemporanea di formazione estremamente recente e fulminea, iniziata con lo “sbarco” degli occidentali nell’arcipelago giapponese a fine Ottocento e terminata, dopo un rapido processo di industrializzazione accelerata, ai giorni nostri, dopo essere transitata per una breve quanto intensa fase nazionalista ed imperialista nel corso della seconda guerra mondiale.
Certamente, la produzione cinematografica hollywoodiana, per decenni, ed il più recente intervento dell’informazione digitale incontrollata ed a volte cialtrona, semplicistica e bufalona, hanno giocato un ruolo importante nella costruzione di questo stato alterato di coscienza storica, ma è anche vero che, come in tutte le leggende metropolitane, anche in questo caso può essere riscontrato un certo fondo di verità.
La “scoperta” del Giappone da parte degli occidentali – in una visione classica ma quanto mai europocentrica della storia mondiale – avvenne infatti in un periodo piuttosto recente di notevole instabilità politica e sociale per il Sol Levante.
Tra il 1542 ed il 1543 alcuni marinai olandesi, imbarcati su un bastimento cinese, giunsero a causa di una tempesta sulle coste meridionali del Giappone – nello specifico nell’isola di Kyūshū – e dopo un primo incontro – dai risvolti sostanzialmente positivi per i rapporti tra gli occidentali e gli autoctoni, i quali vennero peraltro in contatto per la prima volta con le armi da fuoco, che pure erano state inventate dai loro “vicini” cinesi – gli olandesi rientrati nelle Indie spronarono i loro connazionali e gli occidentali in generale ad implementare i contatti con le isole del Giappone.
Nel 1571 venne inaugurata la prima stazione commerciale presso Nagasaki, mentre il primo marinaio inglese, pur imbarcato su un veliero portoghese, pose piede sulla terraferma giapponese nel 1600.
Già dal 1549 i padri gesuiti erano presenti sul territorio, quale conseguenza dell’impulso missionario di Francesco Saverio (1506-1552), successivamente divenuto anche patrono delle missioni cattoliche, che si era avvicinato alla terra giapponese con fini di evangelizzazione partendo dai possedimenti portoghesi nelle Indie e sull’isola di Goa. La presenza dei gesuiti in Giappone era stata peraltro rilevante ed influente, poiché, oltre a nozioni puramente religiose, essi avevano introdotto sul territorio anche nozioni mediche ed astronomiche d’avanguardia.

Nell’aprile del 1600, come accennato, il battello portoghese Liefde, dopo più di diciannove mesi di navigazione e con un equipaggio ridotto ad una scarsa ventina di marinai indeboliti ed ammalati (rispetto al centinaio di uomini imbarcati alla partenza) gettò le ancore al largo dell’isola di Kyūshū, facendo sbarcare, tra gli altri, anche il pilota inglese William Adams (nato il 24 settembre 1564 a Gillingham nel Kent, morto il 16 maggio 1620 a Hirado, Giappone), destinato a divenire nel giro breve di pochi anni l’occidentale più importante e più influente nel Giappone dell’epoca, giungendo persino ad entrare nella cerchia rist
retta dei consiglieri dell’allora Shōgun Tokugawa Ieyasu, per conto del quale curò l’allestimento della prima nave di concezione occidentale. Noto anche come Anjin Miura (il Pilota di Miura), Adams ha ispirato in periodi più recenti il noto scrittore James Clavell che vi ha cucito sopra il personaggio di Blackthorne nel suo famosissimo romanzo storico Shōgun, appunto, poi riportato anche sul grande schermo in una altrettanto fortunata serie televisiva in cui recitavano, fra gli altri, anche Richard Chamberlain (Blackthorne) e Tochiro Mifune (lo Shōgun).

Sostanzialmente in contemporanea al primo contatto tra gli occidentali ed il complesso mondo giapponese, ebbe inizio il periodo generalmente noto come della Pax Tokugawa (dal nome della famiglia degli Shōgun in carica) che portò, fra le altre conseguenze politiche, sociali ed economiche innanzitutto ad uno shogunato ereditario – a differenza dell’iniziale concezione secondo la quale lo Shōgun, o “generalissimo” come spesso viene indicato in occidente, consisteva in una carica militare sostanzialmente di nomina imperiale e formalmente sottomessa al controllo dell’imperatore – ma anche ad una stretta regolamentazione e controllo sulla religione (si giunse anche alla messa fuori legge del cristianesimo, che pur inizialmente aveva attechito con discreto successo in vari strati sociali), sull’economia, sulla nobiltà e sulle classi sociali, ad una razionalizzazione del sistema di imposte statali, ad una perfezionata gestione della spesa pubblica, ad una riorganizzazione della burocrazia e ad un progressivo isolamento degli occidentali e ad una loro esclusione dagli affari interni giapponesi.

Tra il 1635 ed il 1853 i Tokugawa isolarono se stessi ed il paese in quello che è noto come il periodo del Sakoku, ovvero un isolamento autarchico di quasi duecento anni nel corso del quale vennero tranciati tutti i rapporti con l’esterno, o quasi, e filtrarono solamente talune nozioni mediche provenienti dal mondo occidentale e furono ammessi soltanto sporadici rapporti commerciali con le popolazioni russe al nord-ovest.
Tale lungo isolazionismo si concluse sotto la pressione politico-economica del mondo occidentale che, con i mezzi della cosiddetta diplomazia delle cannoniere portò all’incursione delle navi nere del commodoro statunitense Matthew Perry che, forzando il divieto di sbarco per gli occidentali, gettarono l’ancora nella baia di Uraga, presso l’allora capitale Edo. L’azione di forza incrinò il fronte isolazionista e portò, nel breve volgere di pochi anni, alla stipula della Convenzione e poi Trattato di Kanagawa (1854), dell’insieme dei cosiddetti Trattati Ineguali ed, infine, del Trattato di Amicizia e Commercio (1858), che aprirono i flussi di contatto ed interscambio tra cultura ed economia occidentale e nipponica.


Al riavvio dei contatti con l’occidente, seguì in Giappone un periodo di rinnovamento, modernizzazione ed industrializzazione del paese noto come Restaurazione Meiji (1868-1912) che prende il nome dal 122° Imperatore del Giappone Mutsuhito, Meiji Tennō (1852-1912).

Il trapasso dal sistema sostanzialmente feudale del lungo periodo Tokugawa alla rapida modernizzazione della restaurazione Meiji non fu indolore e generò numerosi scontri interni che sfociarono in una grande guerra civile, nota anche come Boshin Sensō (guerra dell’anno del drago), che si svolse tra il 1868 ed il 1869 e vide contrapposte una fazione filoimperiale ad una fedele ai Tokugawa, la quale venne però rapidamente sconfitta dalla numericamente più esigua ma assai più modernizzata controparte, la quale impose definitivamente la cessione del governo dello Shōgun e la rimissione dei pieni ed effettivi poteri all’autorità imperiale.

Figura emblematica delle profonde tensioni che agitarono la società fu quella di Saigō Takamori (1828-1877), notissimo condottiero samurai che guidò la rivolta di Satsuma, guidando più di 40.000 uomini contro le forze imperiali e venendo sconfitto, assieme a 400 fedelissimi, nella battaglia di Shiroyama. Le sue gesta, che si impressero profondamente nell’epica giapponese e nell’immaginario collettivo anche occidentale, riecheggiano tra le pieghe della storia ma è bene ricordare che Takamori si scontrò con le forze imperiali per una diversa visione circa il ruolo della classe samurai nella gestione della cosa pubblica e dell’economia del paese, non tanto per un romanzesco quanto romantico legame con la tradizione. Lo stesso Takamori vestiva spesso all’occidentale anche sul campo di battaglia, impiegava armi da fuoco di concezione moderna (a Shiroyama i samurai si servirono di spade e frecce soltanto quando terminarono le munizioni) ed aveva recentemente guidato, nel corso della guerra Boshin, un’armata Kangun (ovvero filo-imperiale) contro i ribelli lealisti dei Tokugawa.

Uno splendido affresco delle pulsioni tradizionaliste, contrapposte alla vocazione modernista ed industrializzatrice della nazione, non certo scomparse assieme a Takamori negli anni ’70 dell’Ottocento, viene proposto da Yukio Mishima (1925-1970) in quella che forse è l’opera letteraria che maggiormente esprime la sua poetica: Cavalli in fuga (Honba, o A briglia sciolta, pubblicato nel 1969 in seno alla notissima quadrilogia del Mare della fertilità).
La vicenda di Saigō Takamori è stata recentemente libera ispiratrice – mi si perdoni l’improprio accostamento tra Hollywood ed il grande Mishima – della trama del film L’ultimo samurai, con Tom Cruise e Ken Watanabe. Quest’ultimo impersonava il samurai Kasumoto, sorta di alter ego cinematografico di Takamori.

Per rimanere nella sfera di interessi propria dell’associazione YKIAT, vale la pena ricordare che il fondatore dell’Aikido, Morihei Ueshiba, era proprio il frutto socio-culturale di quei periodi burrascosi, essendo nato in una famiglia samurai a Tanabe il 14 dicembre 1883 (deceduto poi a Tokyo il 26 aprile 1969); il maestro che, fra i molti che egli seguì nei lunghi anni di studio marziale, più influenzò la sua Via, Sokaku Takeda, gran maestro del Daitō Ryū Aiki Jūjutsu, era pure un samurai nato ad Aizu il 10 ottobre 1859 (deceduto poi il 25 aprile 1945).


Nello stesso periodo, Trieste – che è bene ricordare era città immediata dell’Impero – era il principale porto commerciale dell’Austria. È noto che tutte le strutture portuali – quello che ora è chiamato Porto Vecchio – ed anche buona parte della città nuova – si pensi al Borgo Teresiano, al Borgo Franceschino, al Borgo Giuseppino… – vennero progettate e realizzate dalla duplice monarchia proprio al fine di potersi avvantaggiare di una città portuale moderna, efficiente ed all’avanguardia.
Militarmente Trieste era sotto la giurisdizione di Graz, ed afferiva alla corona austriaca nell’Impero Austro-Ungarico, così come Pola ne era il principale porto militare e, parimenti, Fiume era il porto commerciale della corona ungherese.

La splendida esposizione La grande Trieste ci ha già ben illustrato per immagini – grazie ai notevoli fondi degli archivi e delle collezioni dei Civici Musei di Storia ed Arte – la variegata molteplicità ed il notevole fermento che, in quegli anni al volgere del secolo diciannovesimo, animavano ogni aspetto della vita cittadina sia in ambito culturale che politico, economico, sociale e religioso.
Nel lontano 1833 diciannove tra società assicurative e bancarie e 127 privati cittadini – tra i quali anche Karl Ludwig von Bruck e Pasquale Revoltella – fondarono l’Österreichischer Lloyd, una società il cui motto era Vorwärts e che, su modello dei Lloyds di Londra, doveva fornire informazioni e stime sui mercati stranieri per agevolare l’imprenditoria austroungarica nel mondo.
Il 2 agosto 1836 – data che secondo taluni storici rappresenta la vera nascita del Lloyd – venne aperta la sezione spedizioni, in affiancamento a quanto già esistente. In quel periodo la flotta viene rinnovata con una lungimirante scelta tecnica che preferisce le navi a vapore a quelle a pale ed inizia il servizio postale in tutto il Mare Adriatico.
Nel 1842 l’Österreichischer Lloyd viene autorizzato dalle autorità ad alzare il vessillo postale e, contestualmente, gli equipaggi adottano una nuova montura blu – del tutto simile a quella della marina da guerra – abbandonando la precedente versione, troppo simile ad una sfumatura verde-grigia in uso nella marineria russa.
Nel 1869 il Lloyd diviene azionista della Compagnie Universelle du Canal de Suez – il cui vicepresidente era ancora una volta il già citato Pasquale Revoltella – ed all’apertura del Canale tre bastimenti del Lloyd, il Pluto, il Vulkan e l’America saranno presenti nel primo convoglio che attraverserà l’istmo ormai reso navigabile.
A giro breve vengono aperte nuove rotte commerciali e passeggeri: nel 1869 Port Said, nel 1870 Bombay, nel 1880 Colombo, Singapore ed Hong Kong, nel 1881 Shangai e, infine, nel 1892 due distinte rotte verso Nagasaki e Yokohama.
La vocazione ad una proiezione commerciale verso l’estremo oriente, e quindi ad un collegamento diretto con il Giappone, rimase radicata nella struttura e nella dirigenza del Lloyd tanto che fino al 1914, allo scoppio cioè del primo conflitto mondiale, il servizio indo-cinese e quello giapponese garantiva i seguenti collegamenti:
Trieste – Port Said – Aden – Bombay (2 volte al mese)
Trieste – Port Said – India – Calcutta (2 volte al mese)
Trieste – India – Singapore – Hong Kong – Shangai – Yokohama – Kobe (1 volta al mese)
Trieste – Port Said – Bombay – Hong Kong – Shangai – Yokohama – Kobe (1 volta al mese)
Per una sorta di inerzia aziendale, del tutto omologa a quella istituzionale che occorse nella neonata Venezia Giulia dopo la fine del primo conflitto mondiale, il Lloyd Triestino proseguì nella propria attività di collegamento con il medio oriente sfruttando i medesimi canali attivati dal suo illustre predecessore austriaco, e mantenne attivi per un lungo periodo i medesimi collegamenti internazionali con il Giappone.
Il forte e persistente legame tra Trieste ed il Giappone è testimoniato, fra l’altro, dalle notevoli collezioni di oggetti d’arte, documenti, fotografie a tutt’oggi conservate in città: la foto seguente è un esempio dell’unico paesaggio urbano conservato presso la Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste (inventario 190898) e ritrae il centro di Yokohama al termine del diciannovesimo secolo.

L’insediamento di Yokohama, già citato in quanto uno dei primi e principali punti di approdo degli europei in Giappone, divenne ben presto sede di numerose missioni diplomatiche e commerciali occidentali e luogo di residenza di una buona parte degli europei che risiedevano in Giappone. Divenne anche sede della Yokohama Sha Shin (sha = copia, shin = dal vero), ovvero la prima scuola di fotografia occidentale in Giappone, peraltro specializzata nella colorazione delle immagini per mezzo di albumina.
A seguire ancora alcuni esempi di immagini fotografiche d’epoca, i cui originali sono conservati presso la Fototeca dei Civici Musei di Storia ed Arte di Trieste, tranne l’ultima, di fonte differente, che raffigura però alcuni occidentali ritratti, appunto, a Yokohama alla fine dell’Ottocento.
Veniamo quindi ad accennare alla figura, purtroppo misconosciuta e spesso sottovalutata, di un triestino illustre e prestigioso: Johan Georg barone von Hütterot. Nato il 21 dicembre 1852 in una famiglia di origine tedesca (il padre Karl, originario di Kessel, era un commerciante che si era trasferito a Trieste proprio per motivi professionali) e tragicamente scomparso, sempre a Trieste, il 29 maggio 1910, von Hütterot rappresenta una figura di assoluto rilievo e spessore per la città, alla pari di altri esponenti di spicco coevi quali i vari Morpurgo o Sartorio. I recenti studi della citata Silvia Zanlorenzi hanno consentito di rivalutarne ruoli ed importanza, anche alla luce di una specifica attività di ricerca.
Solamente per citare alcune delle cariche che vennero rivestite dal cavalier Georg, un vero e proprio businessmann ante litteram, è doveroso citare il suo impegno nell’ambito delle attività di sviluppo e promozione della Camera di Commercio di Trieste (uno dei membri della quale era proprio il padre), il ruolo di capo delegazione triestina all’Esposizione Universale di Philadelphia del 1875, il suo ruolo di fondatore e poi consigliere della Prima Pilatura del Riso SpA, poi divenuta Risiera di San Sabba in Trieste, il ruolo di fondatore e poi presidente della Società Austriaca di Pesca e Piscicultura in Trieste e nel Litorale, il suo ruolo attivo quale consigliere nell’amministrazione dell’ippodromo triestino, nel Consiglio dell’Industria, nel Consiglio dell’Agricoltura, il suo incarico – dal 1897 – di presidente dello Stabilimento Tecnico Triestino, per non menzionare le innumerevoli onorificenze di cui fu ufficialmente insignito (tra le altre: l’Ordine Spagnolo di Carlo III; il cavalierato ai Meriti per l’Industria; la nomina a Regio Consigliere del Ministero del Commercio, Industria ed Agricoltura; la nomina del 1905 a membro a vita della Camera Alta nel Consiglio Imperiale).

Recenti sviluppi nelle ricerche sulla sua biografia hanno peraltro gettato nuova luce sul suo fatale suicidio nel 1910: parrebbe egli fosse stato travolto da un’operazione commerciale disastrosa, legata ad un finanziamento per la costruzione del gioiello della flotta da guerra imperialregia, il Viribus Unitis. La realizzazione della corazzata costò più di 67 milioni di corone e sembra che von Hütterot si fosse esposto economicamente in prima persona, addirittura in contrasto alle raccomandazioni dei Rotschild, che pure erano della partita.
La storia della nave in oggetto, peraltro, non risulta davvero molto fortunata: ideata come punta di diamante della flotta ad alto livello tecnologico, il Viribus Unitis non solo portò al suicidio il nostro barone Georg, ma, dopo il varo avvenuto nel 1911 proprio a Trieste, ebbe il funesto compito, nel 1914, di riportare a Trieste le salme dell’Arciduca Francesco Ferdinando e della moglie Sofia dopo l’attentato di Sarajevo ed, infine, venne colata a picco con una mignatta a Pola nell’audace azione di Paolucci e Rossetti del 1918, primo storico successo dei mezzi insidiosi della Regia Marina.
Gerog von Hütterot sviluppò nel corso della propria vita nel Litorale anche un innovativo progetto di riqualificazione e sviluppo turistico nella zona di Rovigno, ove aveva scelto di dimorare, al fine di elevarne la vocazione internazionale in contrapposizione all’allora gettonatissimo litorale di Abbazia.
Il barone e la moglie Marie, peraltro, erano anche entrambi appassionati giapponsiti, oltre che esperti ed amanti dell’arte in generale. Entrambi parlavano e scrivevano correntemente il giapponese ed avevano provveduto a piantare delle essenze giapponesi nelle loro tenute a Rovigno, tanto che tutt’oggi nella splendida cittadina istriana è riscontrabile la presenza di alcune varietà di Ginko Bilboa e di Pino Giapponese, da loro impiantati all’epoca.

Molto probabilmente primo tra gli europei, Georg von Hütterot venne nominato Console Onorario del Giappone.
Tra il 1884 ed il 1885 i coniugi Hütterot furono impegnati in un lungo viaggio in Giappone, nel corso del quale, nel febbraio del 1885, Georg ricevette dalle mani dell’Imperatore Meiji in persona l’onorificenza dell’Ordine del Sol Levante. Nel corso dei mesi trascorsi in estremo oriente, Georg si prodigò a raccogliere materiali ed idee per il trattato sulle spade giapponesi che poi diede alle stampe col titolo di Das Japanische Schwert, e che a tutt’oggi rimane un testo valido ed attuale.
A Rovigno il Barone aveva anche allestito una discreta raccolta privata di oggetti d’arte giapponese e due dei suoi yacht erano stati nominati rispettivamente Suzume e Nippon. Nella sua bella quanto famosa villa rovignese vennero ospitati personaggi e dignitari di rango notevole, come ad esempio il principe imperiale Yourito Komatsu nel 1894.
Come tragicamente noto, le collezioni rovignesi Hütterot vennero depredate al termine del secondo conflitto mondiale quando la villa venne confiscata dopo che i titini avevano ucciso a sprangate, il 31 maggio 1945, la baronessa Marie, di 85 anni, e la figlia Barbara di 49.
Il barone von Hütterot ebbe un ruolo determinante nella realizzazione di un evento, poco conosciuto ma assai rilevante nell’ambito dei rapporti nippo-triestini, che ebbe luogo nella seconda metà del 1907.
Tra il 1 aprile ed il 16 novembre 1907, infatti, i due incrociatori corazzati della Marina Imperiale Giapponese Tsukuba e Chitose – quest’ultimo, peraltro realizzato in un cantiere di San Francisco su ordine giapponese in sostituzione di altre unità navali andate perdute negli scontri della Guerra Russo-Giapponese, rimane famoso per essere stato immortalato, all’atto del varo negli Stati Uniti, in un filmato girato nientemeno che da Thomas Alva Edison – effettuarono una crociera negli Stati Uniti ed in Europa, dovendo presenziare in forma ufficiale alla Jamestown Exposition, fiera internazionale organizzata per commemorare i 300 anni della fondazione della Virginia.
Di rientro dalle Americhe, le due navi sostarono anche in Italia e da giovedì 5 a sabato 14 settembre 1907 sostarono dinnanzi al Molo San Carlo di Trieste per una lunga ed articolata visita di cortesia alla città ed all’Impero.
Il giorno 11 settembre 1907, una rappresentanza degli equipaggi ed il comandante della squadra navale, si recarono persino a Vienna dove furono ricevuti dal Kaiser Franz Josef in persona, che conferì al viceammiraglio comandante la Corona Ferrea di prima classe.
Nei giorni di permanenza della squadra navale a Trieste vennero organizzati numerosi banchetti, concerti ed occasioni conviviali: l’Osservatore Triestino – uno dei principali quotidiani cittadini dell’epoca – riporta di eventi che vennero organizzati all’Hotel de la Ville, a Villa Necker, in Villa Revoltella ed all’Hotel Obelisco.

Pare interessante anche soffermarsi brevemente sulla figura del comandante della squadra navale, l’allora viceammiraglio Ijuin Gorō (29 settembre 1852 – 13 gennaio 1921). Nato a Kagoshima, ebbe la sorte di combattere nelle fila imperiali come soldato di fanteria nel corso della Guerra Boshin e solamente in un momento successivo, nel 1871, entrò nell’Accademia Navale Imperiale prendendo persino poi parte alle operazioni di repressione della citata Ribellione di Satsuma nel 1877.
Nello stesso anno 1877 si trasferì nel Regno Unito, dove seguì dei corsi di specializzazione in ingegneria presso il Royal Naval College, divenendo presto uno dei massimi esperti di tecnologie navali della Flotta Imperiale. Pur non avendo mai comandato un’unità navale in combattimento, egli fu uno dei più validi e brillanti strateghi dello Stato Maggiore Imperiale e tra il 1909 ed il 1914 fu Capo di Stato Maggiore della Marina Imperiale Giapponese. Per i suoi meriti militari, qui solamente accennati, venne nominato Danshaku (un titolo equiparabile a quello di barone) nel 1907. Scomparso nel gennaio 1921, viene oggi ricordato nel cimitero di Aoyama presso Tokyo.


Altro collegamento diretto tra la storia della città di Trieste ed il Giappone è legato direttamente alla figura dell’Arciduca Massimiliano d’Asburgo, poi Massimiliano del Messico. Come noto ufficiale di Marina ed appassionato naturalista e cultore dell’arte e della scienza, riportò a Miramare parecchi cimeli ed oggetti dall’estremo oriente, oltre che numerose varietà vegetali ed essenze che vennero ripiantate nel parco del castello.
È universalmente noto come ancor oggi alcuni angoli del Castello di Miramare siano arredati con un Salotto Cinese di ottima fattura e numerosi oggetti e vasi di origine giapponese. L’interesse dell’Arciduca per le vicende del Giappone, unito alla sua passione per il mare, ha fatto sì che ancor oggi la biblioteca del castello vanti un’interessante versione tedesca della relazione del Commodoro Perry, edita a Lipsia e New York nel 1856.
Massimiliano era anche un risaputo sovvenzionatore ed acquirente dell’originalissimo Gabinetto Wünsch: aperto in Contrada del Corso a Trieste nel 1841 come pasticceria, si ampliò ben presto con un’esposizione-vendita di oggetti d’arte dal lontano oriente al primo piano, accogliendo spesso riunioni di appassionati ed acculturati e fungendo, fino alla chiusura nel 1890, da vero e proprio cenacolo culturale specializzato sui temi dell’oriente e del giapponismo.
Avendo più volte citato le collezioni dei Civici Musei di Storia ed Arte, non è pensabile non ricordare il Civico Museo di Arte Orientale, interessante contenitore museale i cui reperti in esposizione permanente (tra i quali vanno ricordate le numerose stampe, i surimono – sorta di caratteristica xilografia giapponese – e gli ukyio-e – ovvero particolari stampe artistiche eseguite su blocchi in legno – oltre che l’oggettistica e le numerose armi) derivano sostanzialmente da un nucleo principale di materiale proveniente dalla Collezione Morpurgo, unito a derivazioni di altre raccolte, come la parte “triestina” della collezione Hütterot, le raccolte de Henriquez, le collezioni Revoltella e la collezione Orell, che si pensa potesse raggiungere il migliaio di ukyio-e, di cui gli unici noti sono, appunto, quelli acquisiti dal comune di Trieste nel 1927.
Tanto per esemplificare la rilevanza dei pezzi giapponesi conservati a Trieste con un’immagine piuttosto nota, bisogna ricordare come in città sia conservata una copia del notissimo La grande onda di Kanagawa (1830-1832), xilografia policroma del grande Katsushika Hokusai (1760-1849).

Avendo già accennato alla figura di Argio Orell (1884-1942) vale la pena ricordare che il grande illustratore ed artista grafico triestino, che aveva legato il proprio nome, le proprie fortune e la propria pregevolissima carriera alla casa triestina Modiano e che fu allievo del grande Scomparini, fu anche un entusiasta estimatore della cultura e delle espressioni artistiche, nella fattispecie, ovviamente, delle opere grafiche, del lontano (ma per Trieste vicino, come abbiamo avuto modo di comprendere) Giappone.

Oltre ad aver preso parte e curato parte dell’Esposizione di Arte Orientale organizzata nel 1912 presso il Circolo Artistico Triestino, Orell ripropose in parecchie delle proprie opere, reinterpretandole, delle citazioni di grandi capolavori nipponici o, quantomeno, riprese linee e stili tipici di quelle espressioni artistiche.
Impossibile non citare Portorose (1920), in cui le onde del mare richiamano immediatamente la citata opera di Hokusai, così come la copertina di Sul Mare (1929) in cui, oltre ad un’altra reinterpretazione del dinamismo delle onde marine, viene anche riprodotta una pagoda chiaramente in stile giapponese ed, ancora, taluni dei pezzi nella nota serie dei Tarocchi (1908-1910) realizzati proprio per il Lloyd Austriaco, in cui pose, movimenti e soggetti sono di chiara matrice nipponica.
Altro artista di rilievo sul panorama nazionale, che lavorò e produsse a Trieste e si fece anche espressione di un particolare filone di giapponismo triestino, fu Carlo Wostry (1865-1943), celebre per numerose opere pittoriche e di grafica applicata. Egli, alla pari e precedendo di quattro anni Orell, partecipò e curò un’Esposizione di Arte Orientale organizzata nel 1908 dal Circolo Artistico Triestino.

Anche per Wostry, del cui stile peculiare e delle cui opere si dovrebbe trattare ben più a lungo, è doveroso ricordare quantomeno l’opera per mezzo della quale espresse con la maggior intensità ed efficacia la sua vicinanza alla grafica nipponica: la notissima Danzatrice Giapponese (1912), non certamente l’unica ma forse la più significativa delle sue opere giapponiste.

Tra i triestini che dipinsero l’Oriente ed il Giappone andrebbero in ogni caso quantomeno ricordati il precursore Giuseppe Garzolini e poi, oltre Scomparini, Wostry, Orell e Veruda, anche Guido Grimani, Bruno Croatto, Glauco Cambon, Giovanni Zangrando, Giuseppe Miceu, Vittorio Bolaffio, Vito Timmel, Ferdinando Quaiatti, Adolfo Levier, solamente per citare i più noti e rilevanti.
Il giapponismo fu un fenomeno complesso e molto variegato, che coinvolse differenti ambiti della produzione artistica europea di fine Ottocento e, soprattutto, inizi Novecento.
Anche in ambito letterario sono ben noti gli interessi e gli sconfinamenti “orientali”, quando non propriamente “giapponesi” di grandi autori quali Ezra Pound, Rainer Maria Rilke, Gabriele D’Annunzio, Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Mario Chini, ecc.
Recenti studi hanno portato alla luce, però, anche un’esperienza giapponista di Umberto Saba, che si avvicinò in maniera più coerente e sistematica alla poesia haiku di quanto sinora si fosse creduto.
Come noto noto gli haiku giapponesi sono una forma metrica in cui la poesia veniva tradizionalmente proposta in un testo di 17 sillabe su una struttura che ne alternava 5 a 7 ed, ancora, a 5.
Il maestro di questa forma ritmica viene considerato Matsu Basho (1644-1694), anche se l’origine di tali poesie è certamente più remota e più articolata. In tempi più antichi, infatti, gli haiku erano parte di una sorta di competizioni poetiche a catena, in cui uno dei contendenti doveva iniziare il gioco componendo un poema sulla cittata struttura ritmica 5-7-5, cui l’altro contendente doveva, seguendo specifiche regole tematiche, rispondere con una conclusione concatenata sulla ritmica di 7-7 sillabe.
Erano da tempo noti gli esperimenti in questo specifico ambito ritmico da parte di Saba – sulle orme di Ungaretti – che tra il 1915 ed il 1918 aveva già definito tali propri componimenti “i miei piccoli giocattoli”, ma un rinvenimento recente dell’antiquario Simone Volpato in seno alle carte di quel Centro Studi Triestini “Giani Stuparich” che era stato fortemente voluto da Anita Pittoni, ha ricalibrato la portata degli esperimenti giapponisti di Saba.
Il fascicoletto dattiloscritto risalente al 1927 ritrovato da Volpato e che precedentemente era stato dato per disperso, Intermezzo quasi giapponese, non svela tanto nuovi poemi in forma giapponese, quanto getta nuova luce sull’organicità poetica di Umberto Saba in una logica di approfondimento di queste ritmiche orientali assai meno superficiale e volubile di quanto sinora ipotizzato.
Già dai brevi spunti richiamati questa sera emerge con forza un legame saldo e consistente tra la città di Trieste ed il Giappone, il quale andrebbe approfondito e sviluppato nei modi più adeguati e nelle sedi accademiche più opportune per garantire un’analisi seria e più rigorosa rispetto alle brevi note dell’odierna chiaccherata.
Grazie,