Il mondo della diaspora istriana (fiumana e dalmata, beninteso) soffre da sempre di un serio complesso di inferiorità storica, alla pari – in Europa – delle altre grandi galassie umane generate dai massicci trasferimenti più o meno forzati di popolazione che sono conseguiti al secondo conflitto mondiale.
Nell’inopportuna quanto, di fatto, persistente gerarchia delle tragedie di massa, la Shoah ha da sempre rivestito i panni del cugino maggiore: più grande e transnazionale il numero delle vittime, incommensurabilmente più atroce e sistematica la brutalità pianificata del metodo, più esteso il lasso di tempo nel perpetrarsi del crimine, più diabolicamente vasta la portata dell’ideologia soggiacente che ne ha determinato incontrovertibilmente il triste primato dell’unicità storica.
Nelle decadi che si sono susseguite dal termine della seconda guerra mondiale, sin dall’ormai nota, simbolica data dell’apertura dei cancelli del Konzentrazionslager di Oświęcim – località polacca che in tedesco faceva Auschwitz – iniziò un processo di consolidamento della “reputazione” storica e civile della tragedia dell’Olocausto dinnanzi all’opinione pubblica mondiale. L’operazione, doverosa e giusta, era cominciata proprio con la grande messa in scena, il 27 gennaio 1945, della scoperta degli orrori dei campi di sterminio da parte degli Alleati quando un drappello dell’Armata Rossa, molto più esiguo e malconcio di quanto l’epica postbellica abbia per anni lasciato immaginare, entrò nel campo polacco, peraltro premunendosi di scattare adeguata documentazione da fornire in pasto ai media.
Come noto a qualsivoglia storico onesto, infatti, la tragica realtà dei campi di internamento e, soprattutto, della Soluzione Finale e dei campi di sterminio, era certamente nota ai vertici politici e militari internazionali, e soprattutto a quelli Alleati, da parecchi anni: non tanto l’humint (cioè l’insieme delle informazioni derivanti dallo spionaggio sul campo) quanto le informazioni dirette derivanti dalla rete dei cappellani militari, nello specifico ed in primis quelli italiani aggregati all’Armir, avevano veicolato rapporti dettagliati e circostanziati sulla persecuzione degli Ebrei in Russia e nell’Europa centro-orientale occupata e sulle brutalità commesse delle Einsatzgruppen nei confronti delle popolazioni che venivano inglobate nei territori sotto controllo del Reich.

Ciò, unitamente alle successive informazioni ottenute dalla ricognizione aerea amgloamericana, avevano dato tremenda conferma di ciò che accadeva nei lager agli alti comandi alleati assai ben prima del gennaio 1945. Ciò, peraltro, lancia pesanti quanto lugubri ombre sulla condotta bellica alleata, che avrebbe avuto modo quantomeno di paralizzare la rete logistica della morte con bombardamenti mirati agli snodi ferroviari, se non alle infrastrutture stesse dei campi, molto prima di far giungere i propri reparti di terra ai cancelli dei campi di concentramento. Ma, forse, l’effetto mediatico di questa operazione cancelli aperti – mi si perdoni la sacrilega ironia, che non vuole essere irrispettosa delle vittime di quei luoghi di morte – era un obbiettivo politico assai più allettante e funzionale alla stabilizzazione del nuovo ordine geopolitico postbellico che non l’interruzione dei massacri in pieno corso di una guerra i cui esiti, se non dopo il ’44 avanzato, erano non certo sicuri.
Esodo, Foibe, campi della morte in Jugoslavia, prigionieri ed internati restituiti all’Italia ed alle famiglie molti anni dopo i fatti bellici, così come il terrore politico e la repressione delle minoranze attraverso i più opportuni apparati del Partito Comunista Jugoslavo (dalla polizia politica segreta ai circoli di indirizzo politico mascherati da organismi culturali autogestiti), espropri, confische e nazionalizzazioni selvagge sino all’alba del nuovo millennio sono invece tragiche realtà che hanno stentato ad affermarsi al tavolo della storiografia ufficiale, dapprima, ed al banco di prova – impreparato, grossolano e caciarone – dell’opinione pubblica nazionale, poi.
Motivi e concause di tale disparità di trattamento sono chiaramente identificabili: il peso specifico del sangue dei vinti è, da sempre, assai meno pesante di quello dei vincitori sulla bilancia della giustizia e della Memoria; la realpolitik della Repubblica nata dalla Resistenza non poteva ammettere spiacevoli crepe nella monolitica quanto manicheista fede ai valori partigiani; l’assetto geopolitco internazionale dominato dalle potenze vincitrici non poteva consentire a 350.000 persone, ed alle loro tragedie umane, di adombrare la volubile sensibilità del Maresciallo infoibatore Josip Broz Tito, satrapo della Federativa ed ago della bilancia nell’instabile disequilibrio dei paesi non allineati, interposti tra i due blocchi della Guerra Fredda.
Si è dovuto attendere tempi molto più recenti, quindi, perché l’azione politica di un centro destra culturalmente impreparato e motivato superficialmente più dal tornaconto dello sdoganamento presso la società civile che dalla spinta ideale di rari singoli, e dalla confluenza di intenzioni con le porzioni di un centro sinistra proteso, pure, allo sganciamento dagli assiomi ideologici del vecchio comunismo italiano, abbia consentito l’emergere delle tragedie degli Istriani, dei Fiumani e dei Dalmati nella traballante consistenza della disastrata coscienza nazionale italiana.
Ciò ha pesato indubbiamente ed incontrovertibilmente nel processo di consolidamento e costruzione della Memoria unificata ed ufficiale di quella Storia, processo che è tuttora in divenire, con risultati alterni e non sempre d’eccellenza.
Ma, è necessario e doveroso ammetterlo per onestà intellettuale, molte dinamiche interne allo stesso panorama associazionistico giuliano-dalmata hanno contribuito a rallentare e screditare quanto di buono veniva fatto, portando oggi quel mondo ormai esangue – in senso biologico: esuli e sopravvissuti alle persecuzioni di Tito si stanno spegnendo per naturale esaurimento rispetto alle date degli eventi in questione – ad un livello di scarsa credibilità e dubbia reputazione agli occhi della popolazione e, soprattutto, degli operatori culturali e delle istituzioni pubbliche.
L’Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata di Trieste è, purtroppo, il metro dell’inadeguatezza e dell’inaffidabilità del mondo dell’Esodo a presentarsi, al di là ed a prescindere dalle differenze di vedute tra le troppe associazioni ancora formalmente attive (quante di esse hanno ancora una reale rappresentatività ed una base consistente e quante, al contrario, sono vuoti contenitori governati da spregiudicati capitani di ventura per i loro fini personalistici e totalmente slegati ai desiderata dei padri fondatori?), sulla scena della contemporaneità per traghettare con dignità la tragedia e la storia di un popolo sconfitto e morente ai posteri ed alla patria Memoria.
Concepito sul finire degli anni ’80 del secolo scorso, l’I.R.C.I. (Istituto Regionale per la Cultura Istriana, come venne denominato allora) portava già nel proprio DNA il peccato originale dell’individualismo e dell’impreparazione dei grandi Soci fondatori: poco dopo la nascita, a seguito delle vibranti proteste delle organizzazioni della diaspora che venivano escluse persino nel nome dell’ente, esso venne ridenominato con l’aggiunta di un esplicito riferimento anche alle realtà di Fiume e della Dalmazia, oltre che dell’Istria. Tutt’oggi l’acronimo I.R.C.I. porta con sé il marchio del pasticcio originario, svolgendo la sigla del proprio nome in un’improbabile Istituto Regionale per la Cultura Istriano-fiumano-dalmata.
Dopo un inizio fatto di stenti (economici, e quindi anche produttivi, culturali e di ricerca) agli albori degli anni ’90, con le presidenze di Artuto Vigini e la prima presidenza di Silvio Delbello, l’Istituto venne proiettato sul panorama culturale cittadino (si registra solo qualche timido e totalmente insufficiente tentativo di muoversi su un piano nazionale o internazionale) come punta di diamante della produzione culturale del mondo della diaspora: numerose e svariate pubblicazioni di volumi spesso di ricerca scientifica originale, strutturazione dell’organigramma interno di dipendenti e collaboratori, acquisizione progressiva di materiali e collezioni e loro inventariazione, la pubblicazione di una rivista semestrale a spiccato taglio scientifico (quel Tempi & Cultura che veniva persino venduto nelle edicole del capoluogo giuliano), la costituzione e l’implementazione di una fornitissima quanto specifica biblioteca d’istituto aperta al pubblico, hanno costituito una discreta prima fase nella costruzione di un ente scientifico d’eccellenza nel proprio settore.
A tale prima fase positiva, però, non è mai seguita la successiva razionalizzazione degli sforzi, professionalizzazione dei collaboratori, ottimizzazione delle risorse e, soprattutto, pianificazione scientifico-culturale, indispensabile a lanciare una realtà giovane ma dalle ottime prospettive, nell’olimpo degli enti di ricerca consolidati.
Questo primo passo fallito è stato l’inizio di un percorso che ha portato ad un progressivo dilagare delle dinamiche di schermaglia politica in seno agli organismi preposti ad amministrare l’Istituto, con Consigli Direttivi sempre più composti da personaggi che si sono prodigati più ad accaparrarsi fondi e finanziamenti che non a garantire un adeguato livello di scientificità nei progetti che i medesimi fiondi consentivano loro di porre in atto.
La seconda presidenza di Silvio Delbello, che quantomeno ha avuto il merito di sovrintendere con attenzione e tenacia al faraonico cantiere di riqualificazione dell’edificio di via Torino, oggi sede del Museo della Civiltà Istriana, Fiumana e Dalmata (definirlo faraonico è imperativo non tanto per le dimensionalità dell’intervento, quanto per i tempi biblici che tutt’ora soggiaciono al completamento degli allestimenti, alla definizione degli organici museali, alla pianificazione del taglio espositivo, alla stabilizzazione degli accordi con le pubbliche amministrazioni locali per l’effettivo avvio formale dell’attività espositiva in seno – o meno – al circuito dei Civici Musei di Trieste), è stata seguita da un paio di presidenze di Lucio Delcaro, immobili quanto desolanti, nel corso delle quali nulla è mutato se non in peggio: la produzione di ricerca è stata azzerata, ristretta la cerchia dei collaboratori scientifici esterni, al numero effettivo di volumi pubblicati dall’Istituto – comunque ridotto rispetto al passato anche a causa dei tagli ai finanziamenti – non è più corrisposto un effettiva rilevanza culturale (troppe le ristampe, la pubblicazione di lavori non di ricerca e le raccolte, pur interessanti, di fotografie storiche o di materiali non afferenti ai temi primari di interesse istituzionale e statutario) e la prestigiosa rivista culturale semestrale Tempi & Cultura, già nel corso degli anni impoverita di firme, ha apparentemente quanto silenziosamente chiuso i battenti.
Tale indebolimento dell’immagine dell’Istituto, che l’opinione pubblica ed il cittadino medio stentano a distinguere da altri soggetti che operano nello stesso ambito ma che vi si differenziano per sostanza e scopi, quali le associazioni ed il Museo stesso, è stata definitivamente demolita con l’ultima presidenza di Chiara Vigini, nel corso della quale apparenti irregolarità nella gestione dei bilanci e pochissima chiarezza circa l’effettiva situazione economica dell’I.R.C.I., sono trapelate addirittura sulle pagine del quotidiano locale Il Piccolo, dando il destro a poco proficui scambi di accuse incrociate tra membri del Consiglio Direttivo, appartenenti a diverse realtà associative giuliano-dalmate, e facendo emergere, persino, uno scontro sottile quanto implacabile tra presidenza e direzione dell’Istituto stesso.
È chiaro agli occhi di tutti come questa situazione disastrosa abbia gravemente rallentato e definitivamente deteriorato il processo di maturazione civile che ci ha sempre visti un passo indietro rispetto ai fratelli Ebrei: l’autorevolezza delle loro istituzioni scientifiche, lo spessore morale del messaggio da loro veicolato, l’affidabilità dei loro enti di ricerca e didattici non sono mai stati messi in discussione, giustamente, mentre le istituzioni pubbliche – cioè gli enti e gli organismi politici e di pubblica amministrazione che hanno il compito di approvvigionare, per quanto possibile, gli istituti di ricerca e le realtà museali, favorendone le linee progettuali e di sviluppo – non hanno di certo una visione idilliaca dell’I.R.C.I., delle beghe legate alla sua gestione ed ai personalismi che lo animano, minandone irrevocabilmente l’autorevolezza e la solidità scientifica.
L’ultimo picco di instabilità si tocca in questi giorni: l’imminente rinnovo delle cariche che avrebbe dovuto portare ad una nuova presidenza con l’auspicata elezione di un candidato condiviso da tutte le parti, a garanzia di un’ideale rinascita dell’Istituto in concomitanza con una ventata di programmazione scientifico-culturale ed un riallestimento razionalizzato degli spazi espositivi anche potenziando le pressoché inesistenti tracce su Fiume e la Dalmazia (si leggano sulle pagine de Il Piccolo le note di protesta di Renzo de’ Vidovich e di Elda Sorci Skender, rispettivamente esponente dei dalmati di Trieste e dei Fiumani presso la Lega Nazionale) sembra essere rimandato a settembre per non meglio chiarite motivazioni. Non solo: la ventilata elezione di Franco Degrassi quale Presidente della Provvidenza, accettato incredibilmente da tutte le parti, viene pesantemente ipotecata dalle laconiche dichiarazioni che il quotidiano attribuisce oggi a Renzo Codarin: “Sciogliere il nodo del bilancio” – nel corso dell’assemblea che avrà luogo in questi giorni, senza rinnovo delle cariche – “ci permetterà di ragionale con calma sul rinnovo delle cariche e sull’accordo con il Comune. A seconda delle condizioni economiche potrà variare anche il nome del candidato”.

Ancora una volta, nel panorama della Diaspora, al peggio non c’è limite: il termometro I.R.C.I. ci conferma la superiorità e l’unicità di altri nel valorizzare la propria Memoria e la totale ed assoluta impreparazione ed inadeguatezza del nostro mondo nel confronto con le sfide della contemporaneità e del futuro.