Originale pubblicato su Unione degli Istriani. Periodico della Libera Provincia dell’Istria in Esilio n°17 – dicembre 2013.

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09 dicembre_mailA metà dicembre 2013 è uscito, un po’ in sordina rispetto alle forti eco già suscitate dallo spettacolo, il volume 87 della collana I Quadeni del Teatro, edizione Il Rossetti del Teatro Stabile del Friuli Venezia Giulia: Magazzino 18, di Simone Cristicchi, regia di Antonio Calenda, contiene il testo completo dello spettacolo e il CD con le canzoni e le musiche originali.

Il volumetto, curato da Stefano Curti ed Ilaria Lucari, conta su 112 pagine complessive, delle quali 78 sono riservate ai testi introduttivi e di saluto di Miloš Budin, presidente del Teatro Rossetti, Jan Bernas, coautore dei testi scenici assieme a Simone Cristicchi, al Cristicchi stesso, ad alcune entusiastiche recensioni giornalistiche tratte dal Messaggero Veneto e da Il Piccolo, ad un repertorio di foto di scena di Tommaso Le Pera e del punto franco vecchio del porto di Trieste di Jan Bernas, alle biografie di autori e regista, ed ai crediti vari.

Riteniamo utile concentrarci esclusivamente sulle 34 paginette restanti, quelle cioè riservate al “testo completo” del recital. Il canovaccio è suddiviso in 9 capitoli principali (Magazzino 18 – La Storia – Le foibe – La strage di Vergarolla – L’Esodo – L’Esilio – I rimasti – Il contro-esodo – Undicesimo comandamento: non dimenticare), corrispondenti ad altrettante scene teatrali, nel corso delle quali intervengono i personaggi dell’archivista Duilio Persichetti, interpretato appunto da Simone Cristicchi, e lo Spirito delle Masserizie che aleggierebbe nel magazzino n.18 del Porto Vecchio di Trieste, intervallati dai testi delle varie canzoni, peraltro disponibili nel CD allegato.

 Nel primo capitolo, Magazzino 18, viene introdotta la scena ed i personaggi: l’archivista ministeriale Persichetti si reca al porto vecchio di Trieste per catalogare ed inventariare la moltitudine delle masserizie – operazione che in realtà si addirebbe maggiormente ad un curatore museale che non alla figura professionale dell’archivista, ma passiamo pure la licenza artistica – e qui, tra una sgangherata telefonata in romanesco e l’altra, oltre a topi e silenzio, s’imbatte nello Spirito delle Masserizie, il quale, in una riuscita trovata alla Dickens, accompagna l’ignorante Persichetti (… Giuliano Dalmata, Ahaa! E come no? E chi è che non lo conosce? A Roma j’hanno dedicato pure un quartiere no? …) alla scoperta del dramma della Venezia Giulia al volgere del secondo conflitto mondiale.

Già da queste prime righe, traspaiono le prime inquietanti ombre, che velano la pur efficace e coinvolgente musicalità e l’indubbia capacità emaptica dell’artista: soprassedendo sul riferimento diretto alla sedia Biasiol, che Cristicchi si è fatto regalare dall’I.R.C.I. (=> 16/2013) o sulla quantificazione per difetto a 300 mila, invece che 350 mila, del numero degli esuli – si tratta oggettivamente di notazioni potenzialmente irrilevanti rispetto al messaggio veicolato dallo spettacolo – fanno riflettere due frasi, l’una declamata dallo Spirito delle Masserizie, e l’altra espressa nel verso della canzone Il cimitero degli oggetti.

scansionePronunciando le parole sono 300 mila gli italiani che se ne vanno, che preferiscono perdere tutto pur di fuggire da una realtà nuova, diversa, percepita come ostile e pericolosa: la realtà della Jugoslavia comunista, lo Spirito evidentemente sottintende affermare che gli Esuli non furono costretti ad andarsene ma preferirono farlo in ragione di una nuova realtà tito-comunista che essi percepivano come ostile o pericolosa ma che, forse, non lo era. Certamente la percezione di ostilità e pericolo che provarono negli ultimi istanti di vita i nostri Martiri Infoibati era infondata e provocatoria, così come la sensazione di grave pericolo che molti capofamiglia percepirono tanto da scegliere di lasciare la propria terra, i propri cari, i propri beni, la propria casa e cercare rifugio in Patria.

Quanto arditamente espresso dallo Spirito, viene confermato poche righe dopo, come detto, nel testo della canzone in un passaggio riferito agli esuli: chi ha preferito un presente distrutto a un’ipotetica libertà. Evidentemente gli Istriani che preferirono l’emigrazione alla permanenza nella Federativa di Tito, guadagnarono un presente distrutto – che è l’unica asserzione sensata di tutto il fraseggio – in cambio di una libertà che, essendo puramente ipotetica, era del tutto assimilabile a quella di cui avrebbero goduto rimanendo.

Il secondo capitolo, La Storia, rappresenta il tanto discusso preambolo di inquadramento e contestualizzazione, tramite il quale lo Spirito educe l’archivista Persichetti sulle vicende che furono causa di tante tragedie tra gli anni ’40 e ’50 del Novecento alle genti d’Istria, Fiume e Dalmazia. Dopo 9 righe dedicate al primo conflitto mondiale, vale accollarsi la briga di leggere integralmente e senza sospensioni le due mezze paginette che fungono da base e riferimento storico al protagonista per consentirgli di portare la nostra storia nei teatri d’Italia e dell’estero (grassetti nostri).

A fine guerra il tricolore viene issato non solo a Trento, a Gorizia e Trieste, ma anche a Zara, Pola e in tutta l’Istria, e le isole del Quarnaro. Anche Fiume, qualche anno dopo si ricongiunge all’Italia e così il processo di riunificazione nazionale si conclude. Per poco. Tanti sacrifici, tanti sforzi, tanti sogni spazzati via vent’anni dopo dal Fascismo, che sfalda il delicato equilibrio fra le etnie della regione.

Già nel 1920, quando Mussolini visita Pola, mette subito in chiaro le sue idee: “di fronte a una razza inferiore e barbara come la slava, non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone”.

La tensione comincia a salire: manifestazioni anti-italiane a Spalato e nel resto della Dalmazia. Manifestazioni antislave a Trieste, a Pola e a Fiume. Non mancano i morti e le azioni clamorose, da una parte e dall’altra. A Spalato vengono uccisi due militari italiani. A Trieste i fascisti danno alle fiamme il Narodni Dom, la Casa del popolo sloveno, il cuore della minoranza slovena, e l’incendio dell’Hotel Balkan diventa il simbolo dell’odio e delle persecuzioni. Forse la prima grande frattura tra gli italiani della Venezia Giulia e le popolazioni slovene e croate.

Purtroppo, dopo la “Marcia su Roma” e la presa del potere, proprio con sloveni e croati il fascismo mostra il suo lato peggiore, totalitario, razzista. Proibito l’uso dello sloveno e del croato nei tribunali e negli uffici. Rimosse le insegne in slavo nei luoghi pubblici e persino nelle chiese. L’unica lingua ammessa nelle scuole pubbliche è l’italiano. Italianizzati molti cognomi slavi. Italianizzati i nomi delle strade e delle piazze. Gradualmente gli spazi culturali, economici e sociali degli slavi vengono soppressi. Il risultato di questa politica di italianizzazione forzata? Tra sloveni e croati cresce inevitabile il risentimento, e il rifiuto di tutto ciò che è italiano: italiano=fascista!

Ma non finisce qui… Mussolini vuole completare l’opera, e con lo scoppio della seconda guerra mondiale, accanto alla Germania di Hitler, invade la Jugoslavia. Tutto precipita! Eccidi, fucilazioni, incendi di villaggi, trasferimenti massicci di popolazioni. E crimini di guerra come quelli commessi in Etiopia e in Grecia, i soldati italiani non se li risparmiano nemmeno in Jugoslavia. Nessuno ha mai pagato per i crimini di questi “italiani brava gente”.

Non occhio per occhio e dente per dente! – aveva ordinato il generale Roatta – Piuttosto una testa per ogni dente.

Migliaia di civili muoioni di stenti nei campi di internamento italiani dalle condizioni disumane. Il peggiore dei campi era sull’isola dalmata di Arbe, oggi ridente località balneare. La trovate sui depliant. 

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“Na Rabu so nas postavili v šotore. Tam so nas začeli ubijati z lakoto. Italijani nam niso dajali niti vode. Moja sestra se je komaj premikala. Bila je vsa kost in koža. Preživeli smo polovica: živi, kakor mrtvi.

Preseli so nas v Gonars. Tam smo izvedeli da moj oče je umrl na Rabu. Jaz in moj brat sva se vrnila domov sana. Vas je bila porušena. Tam smo izvedeli da italijani so požgali tudi našo hišo, očeta pa ni bilo več da bi jo na novo zgradil”

 “Ad Arbe ci misero nelle tende. Lì hanno cominciato ad ucciderci con la fame. Gli italiani non ci davano neppure l’acqua. Mia sorella si muoveva appena. Era tutta pelle e ossa. Siamo sopravvissuti a metà: tutti dei morti viventi. Ci trasferirono a Gonars. Lì siamo venuti a sapere che mio padre era morto ad Arbe. Io e mio fratello tornammo a casa soli. Il paese era distrutto. Lì scoprimmo che gli italiani avevano bruciato anche la nostra casa, ma papà non c’era per ricostruirla”.

8 settembre 1943: il maresciallo Badoglio annunci l’armistizio. Mentre il resto d’Italia precipita nel caos, in queste terre il peggio sta per cominciare. È quello che viene chiamato “il Ribalton”: anche qui, infatti, come nel resto d’Italia, l’esercito si sfalda e la popolazione italiana resta senza difese.

Arrivano i nazisti e a Trieste entra in funzione la Risiera di San Sabba, l’unico campo di sterminio sul suolo italiano a possedere un forno crematorio. La resistenza si rafforza sempre di più.

I partigiani slavi agli ordini di Tito, il Capo dell’esercito liberatore, scendono dalle montagne dell’interno dove sono accampati, e di città in città, di paese in paese, di casa in casa, arrivano e arrestano i “nemici del popolo”: chi sono? Squadristi, gerarchi locali, rappresentanti del Partito Fascista. Spesso sono gli stessi “compagni” italiani ad indicare ai “compagni” slavi dove e chi andare a prelevare.

E fin qui… potrebbero essere vendette verso i fascisti, vecchi rancori nei confronti dei responsabili di vent’anni di soprusi, e poi la guerra di occupazione… Ma poi cominciarono a sparire anche carabinieri, podestà, guardie forestali, farmacisti, maestri, sacerdoti, impiegati statali. Processi sommari ed esecuzioni di massa non risparmiano nemmeno cattolici, antifascisti e persino comunisti. La gente dentro alle case, di notte, è bloccata dalla paura: rastrellamenti, spiate, spari, fughe… e poi padri, fratelli e amici svaniscono così.

“La notte lo ga portà via!” – si diceva.

Dove? Non si sa. Scomparsi, senza lasciare traccia.

Ma perché colpire anche donne, maestri, postini, antifascisti, gente che con la politica non c’entra niente? Forse perché gli italiani sono un ostacolo…

A cosa? Al sogno di Tito. Il sogno di realizzare una sola grande regione, e quindi annettersi anche le zone a maggioranza italiana come Zara, l’Istria, Fiume, Trieste: una sola grande Jugoslavia. Ecco perché la lotta per la liberazione dal nazifascismo – sacrosanta, necessaria, giusta – qui sembra in realtà un mezzo, un pretesto per raggiungere quell’obbiettivo: il confine dell’Isonzo. Ecco perché quella che nel resto d’Italia viene festeggiata come la “Liberazione”, in questa parte d’Italia prende le sembianze di una vera e propria occupazione!

Ecco perché alla fine della guerra, Tito impone marce estenuanti ai suoi soldati per correre – veloci – ad occupare Trieste prima che arrivino gli alleati.

E ci riesce! Il primo maggio 1945 le truppe armate titine entrano nella città giuliana al grido “Trst je naš”, Trieste è nostra.

Il 3 maggio occupano Fiume, il 5 maggio Pola. E in quei terribili 43 giorni di occupazione titina, la Milizia Popolare fa la spola tra le città e le campagne circostanti. Perché bisogna fare in fretta! Veloci!

Perché il sogno della grande Jugoslavia è a un passo, bisogna solo dare un calcio allo stivale! 

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Senza indulgere in considerazioni hegeliane sulle effettiva necessità di dover contestualizzare ad ogni costo la tragedia delle Foibe e dell’Esodo, per l’ovvio fine di renderle sdoganabili e “storicamente corrette” (ragionamenti su cui ho già avuto modo di riflettere in altre sedi => 12/2013), e dando per accettata la necessaria semplificazione di fatti e concatenamenti storici in un testo compatto, sintetico ed introduttivo come quello del libretto teatrale, è imprescindibile tuttavia rilevare degli assunti totalmente inaccettabili in questa pur rapida carrellate: ancora una volta, come da più becera propaganda antiitaliana, il rogo del Balkan è dipinto come unica, sola ed assoluta madre di tutte le violenze della Venezia Giulia nel Secolo Breve (… Forse la prima grande frattura tra gli italiani della Venezia Giulia e le popolazioni slovene e croate…), cancellando con una sola, allegra strimpellata il complesso intreccio di tensioni, attriti e violenze interetniche occorse nella precedente epoca austroungarica; riprendendo il peggior Gianni Oliva, si rispolvera poi la tesi dell’italianizzazione forzata e fascista dei nomi di strade e piazze in Istria – mentre è corretto, con gli opportuni strumenti interpretativi e nel limite dell’oggettività del fenomeno, richiamarsi alla italianizzazione dei cognomi, così come, indubbiamente, il Regno d’Italia variò, nei limiti del comprensibile, la toponomastica asburgica nei principali centri cittadini, è fantaucronistico asserire che a Parenzo, Pola o Capodistria nomi di vie e piazze in sloveno o croato siano stati tradotti o sostituiti dopo il 1918 dall’amministrazione regnicola, o abbiano subito analoga sorte nel ventennio del successivo regime -; nella scia delle teorie di Alessandra Kersevan, si accreditano fantomatici crimini di guerra commessi dalle nostre forze armate in Istria dopo lo scoppio della seconda guerra mondiale; si asserisce a chiare lettere che i nemici del popolo che furono arrestati dai partigiani nel settembre-ottobre 1943 in Istria erano sostanzialmente appartenenti alle categorie degli squadristi o dei gerarchi locali – come rimarcato in più occasioni dal presidente Lacota, rimaniamo sempre in attesa che qualcheduno ci indichi con chiarezza quali e quanti gerarchi del regime, che possano essere definiti tali, ebbero i natali in Istria e lì operarono taglieggiando la popolazione civile di minoranza alloglotta nel corso della guerra di occupazione (sic!) – cui si unirono, solamente poi ed evidentemente in minor numero, anche alcuni esponenti di altre categorie di innocenti; si proclama la lotta di liberazione dal nazifascismo in Istria – quella, per intenderci, condotta dall’infoibatore Tito e dalle sue bande di tagliagole (tanto per non citare altre parti anatomiche) – come sacrosanta, necessaria e giusta, alla peggio un pretesto e un mezzo per raggiungere il confine dell’Isonzo; i 40 giorni di Trieste e Gorizia, nonché il calvario dei Territori Ceduti e della Zona B, schiacciati dal tallone titocomunista, sono una Liberazione che prende le sembianze di un’occupazione; negli stessi maledetti 43 giorni, che poi furono 45, l’unico apparente compito della Milizia Pololare è correre da città a campagna per occupare il territorio, e tanti saluti a tutti i nostri Martiri.

Ma la gravità di tutto ciò, trascende gli svarioni appena citati, che pure varrebbero al duo Bernas/Cristicchi il tapiro d’oro giuliano-dalmata: poiché in realtà lo sgangherato archivista Duilio Persichetti (lo perdonino gli eruditi professionisti che, dopo anni di faticosi studi certosini, si fregiano di quello stesso titolo), oltre ad essere evidentemente l’alter ego scenico del nostro romanesco cantautore, è il campione etno-sociologico dell’italiano medio dell’era post 10 febbraio, tutto selfie, social e crassa e veloce quanto imprecisa e grottesca informazione tweet e on the go, le facili conclusioni che i più trarranno da una rapida lettura del testo sono le seguenti: dopo l’arrivo dell’Italia in Istria, Mussolini nel 1920 a Pola indicò con chiarezza la strada del bastone senza carota. Da qui, tra le tensioni crescenti, il fascismo generò la prima frattura tra italofoni e slavofoni, che catalizzò con un regime totalitario e razzista, culminando con i crimini commessi nella guerra di occupazione della Jugoslavia (che, attenzione, non viene visualizzata nei confini di allora, bensì viene identificata con la più nota “ex-Jugoslavia” di cui le attuali Slovenia e Croazia, e quindi anche l’Istria, fanno parte), lungo una strada lastricata di violenze, fucilazioni di massa, incendi. Commovente la bimbetta slovena brutalmente fatta morir di fame e sete dagli Italiani ad Arbe. Dopo il 1943 giungono in zona i nazisti che, per prima cosa, mettono in piedi un campo di sterminio a Trieste; l’ovvia reazione dei poveri sloveni e croati è quella di armarsi ed arrestare gerarchi, squadristi e rappresentanti del PNF, eccedendo poi con il rastrellamento di qualche postino, carabiniere o saderdote. La giusta guerra di Liberazione di Tito si vela di qualche eccesso bellico, nella corsa a render franchi dall’oppressione tutti i popoli sottomessi, dalla Dalmazia all’Isonzo.

Con tali premesse, chi non si schiererebbe a parteggiare per la defunta Ferativa? Certo, sinora, non è stata spesa una parola in merito alle Foibe ed ai nostri Martiri.

A colmare il vacuum, ci dovrebbe pensare la scena del Capitolo 3, Le Foibe. Certamente il fervore entusiasta degli autori li porta addirittura ad esagerare, mentre raccontano la morte per infoibamento di un ipotetico militare (e cominciamo bene poiché, trattandosi di militare in servizio, pur di fronte a morte sì atroce, in una guerra civile …) del Regio Esercito, catturato a Trieste mentre era in licenza premio, riportano di vittime costrette per prassi ad ingoiare cartaccia, sassi ed erbacce spinose, barbarie che non risulta, al contrario di tante altre torture, così tipicizzante e diffusa. Il punto, comunque, sta nel fatto che, mentre le supposte violazioni dei diritti umani da parte dei belligeranti fascisti italiani vengono ben delineate nella scena precedente, proprio per il fenomeno delle Foibe vengono portati esclusivamente due esempi (il soldato di cui sopra e Norma Cossetto), senza generalizzare la portata del fenomeno e, soprattutto, senza focalizzare in  maniera efficace l’ondata di terrore che gli infoibamenti generarono in due momenti ben distinti e conseguenti, cioè l’autunno 1943 e la primavera 1945. Persino la citazione del noto discorso di Milovan Gilas del “così fu fatto”, che dovrebbe concludere e motivare le Foibe quale componente essenziale del meccanismo di pressione psicologica sulla popolazione italiana dell’Istria, così come proposto nel canovaccio in realtà ne sminuisce la portata e l’effetto, lasciando nella mente dello spettatore/lettore la sola impressione che Tito, in fin dei conti, ordinò a Kardelj e Gilas di indurre gli italiani, maggioranza etnica beninteso nelle sole cittadine e non nel vasto contado, ad andarsene. E così infatti avvenne.

DSC_5473-CopiaNella scena quarta, La strage di Vergarolla, la drammatizzazione dell’istante terrificante dell’esplosione durante l’evento di domenica 18 agosto 1946 è efficace, cruda, riuscita. Si legge di bambini dilaniati, di gente in fuga, di una domenica in tempo di pace trasformata in un mattatoio messicano, di un eroico medico che, nonostante sapesse di aver perduto nel più orribile dei modi i suoi due bimbi, continuò indefessamente a prodigarsi per salvare quante più vittime possibile.

Vittime di chi, però? Delle bombe, certo, che erano state lasciate lì, disinnescate. E che invece esplosero. Perché? Innescate da chi? Lo spettatore non lo saprà mai, né capirà mai che effetto ebbe la strage sul già instabile equilibrio della indifesa comunità polesana e, più in generale, sugli Istriani dei territori ceduti. Non una parola che indichi, nemmeno velatamente, i responsabili o i supposti tali, i mandanti o l’ideologia che si giovò di quella strage.

Magazzino 18 ci parla di Vergarolla, ma lo fa con lo stesso scialbo mutismo del piccolo cippo che a Pula riporta il solo nome di Vergarola e la data: quanti di coloro che hanno assistito al recital si saranno poi davvero documentati sul tragico evento, colmando le abissali lacune lasciate in sospeso da quello spiritello delle masserizie che, beffardo, così liquida la cosa: Ma cosa è successo quella domenica d’agosto a Vergarolla? Sulla spiaggia c’erano 28 mine di profondità. Disattivate, innocue: nessun pericolo. Addirittura i bambini quel giorno ci giocavano vicino, senza paura. Quei mostri addormentati all’improvviso si risvegliano! Sono 9 tonnellate di tritolo che uccidono un centinaio di persone, ne feriscono circa 200?

Seguono quindi ulteriori quattro capitoli (L’Esodo, L’esilio, I Rimasti, Il contro-esodo) – a nostro avviso assai poco efficaci quando non accompagnati dalla musica del CD e se non letti da chi la nostra storia già non la conosca – in cui vengono peraltro anche “prese a prestito” battute e trovate dello spettacolo Il Confine (regia di Manuel Fanni Canelles, con Riccardo Maranzana, Maurizio Zacchigna e Marta Comuzzi) presentato per la prima volta al Teatro dei Fabbri di Trieste il 10 Febbraio 2009, dei quali non è rilevante sottolineare alcunché, salvo evidenziare la strana tendenza a santificare i rimasti, incoronandoli vere vittime sacrificali del lungo Novoecento in Istria.

Quello su cui vale spendere ancora un paio di pensieri, è l’ossimorico Undicesimo comandamento: non dimenticare, in cui prendono voce i veri protagonisti del recital, i quali esprimono un pensiero ciascuno.

Canta innanzitutto Ferdinando Biasiol: sono esule di Pola e questa è la mia sedia. Sopra c’è scritto il mio nome e il numero 2154. Biasiol si scorda soltanto di ricordare al pubblico che la sua sedia, oggi, fa bella mostra di sé a casa di Cristicchi, essendo diventata il suo “portafortuna” dopo che l’IRCI gliel’ha regalata. Seguono Norma (Cossetto) e Domenico il postino militare, gli unici due infoibati dello spettacolo, Geppino (Micheletti), Sergio (Endrigo), Giovanna la suicida sull’albero di ulivo (ovvero, in realtà, Prelaz in Smillovich Maria, impiccatasi, appunto, ad un ulivo nel campo delle Noghere il 21 aprile 1956) e Marinella (Filippaz), l’infante morta di freddo a Padriciano.

Tra loro l’unico non istriano della compagnia, Tomislav lo sloveno. Aveva 14 anni quando suo padre morì di stenti in un campo di internamento italiano sull’Isola di Arbe.

Verosimilmente trattavasi di qualche deportato dalla provincia di Lubiana, poiché non risultano deportati civili dall’Istria nel campo quarnerino. E non c’entrava quindi nulla con il tema del recital, poiché è antistorico e improponibile collegare direttamente le violenze post 1943 in Istria – parte integrante del territorio italiano – persino volendole considerare episodi di mera jacquerie, alle supposte violenze perpetrate dal Regio Esercito nelle operazioni militari nella Provincia di Lubiana (zona da cui proveniva la quasi totalità degli internati), area geografica sconnessa e discontinua dall’Istria sia dal punto di vista geo-morfologico che storico, sociale ed amministrativo.

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Come concludere, quindi, questa sconsolante carrellata, se non parafrasando le parole dello shakespeariano Marcello? C’è infatti del marcio nel Magazzino 18, e la migliore conferma di tale assunto ci giunge dalle parole dello stesso Miloš Budin, che nella sua prefazione elogia lo spettacolo che sarebbe invero un omaggio, oltre agli esuli, anche […] alla dignità con cui altre componenti di queste nostre terre d’Europa hanno saputo affrontare a loro volta i soprusi della storia, rimarcando al contempo come lo spettacolo porti un’informazione su queste vicende che difficilmente potrebbe arrivare con la stessa efficacia in altre forme.

Gli fa eco Jan Bernas: abbiamo fatto la storia, riuscendo a far conoscere al grande pubblico italiano il dramma delle foibe, degli esuli e dei rimasti italiani.

Proprio l’entusiastica approvazione che l’intelligenzija dell’Unione Italiana – i cui vertici si formarono, giova ricordarlo, alle scuole di partito titine, negli anni in cui l’Unione degli Italiani dell’Istria e di Fiume era una costola del Partito Comunista Jugoslavo – ha tributato al Magazzino 18 andato in scena gratuitamente, opportunamente modificato e rivisto per pubblica ammissione dello stesso Cristicchi, nei teatri della costa occidentale istriana sotto il patrocinio dell’Università Popolare di Trieste e del Ministero degli Affari Esteri, suggella la nostra convinzione della totale inaccettabilità del testo dello spettacolo, poiché è impossibile che i veri esuli possanno approvare in qualsiasi forma la vulgata dei rimasti sulle vicende del Confine Orientale, la quale confligge da sempre con la verità storica e con i dati di fatto. L’impossibilità di condividere sinceramente financo la Memoria dei Caduti, troppe volte sperimentata nell’ultimo ventennio, ne è la testimonianza più lampante ed incontrovertibile.

Rimane una sola amarezza, recentemente valutata e condivisa con il presidente Lacota: l’aver concesso, come Unione degli Istriani, il nulla osta di alcune immagini dell’archivio storico per esigenze di scena, senza aver avuto modo di leggere il testo finale del copione (quello, cioé, già rimaneggiato alla vigilia della prima grazie alle sacrosante rimostranze sollevate proprio dalla nostra Unione).

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@EnricoNeami