MUST READ: Febbre dal passato – Trieste 1972, Gianni Bosi, Salvatore Gelsi, Roberto Rossetti, Asterios “Le Belle Lettere”, 2023, ISBN 9788893131278, 158 pagine.

La recensione di un libro – qualunque esso sia – ha come scopo quello di invogliare il prossimo a leggerlo (o scongiurare tale eventualità in caso di un abominio letterario) proponendo spunti e riflessioni orientate ad accattivare il lettore; qualora ritenga interessante un’opera letteraria, il recensore procederà secondo tale buona e consolidata prassi.

Oggi intendo tradire il pensiero sopra esposto e, procedendo forse in modo dissennato, elencherò innanzitutto alcuni difetti di un romanzo poliziesco di cui poi, però, consiglierò la lettura a tutti gli appassionati di Trieste e della sua più complessa vicenda al Confine Orientale.

Un terzo dell’equipe di autori del romanzo è d’origine triestina: Gianni Bosi è infatti figlio di profughi istriani ed insegna matematica all’Università degli Studi di Trieste. Pedigree genetico ed accademico non gli consentono però di controbilanciare l’alterità rispetto alle vicende nostrane che sembra derivare dall’esser forestiero degli altri due autori, il bolognese Salvatore Gelsi ed il marchigiano Roberto Rossetti.

La mia affermazione scaturisce da una sensazione vaga ed adamsbergiana, non razionalmente definibile, che è trasudata dalle pagine febbricitanti di Trieste 1972, impregnandomi della certezza che la storia del capoluogo giuliano, delle sue genti molteplici e plurali, delle sue lotte e tensioni e del suo tormentato confine (che nel ’72 era ancora cerniera tra l’Europa continentale della Nato e dell’occidente capitalista ed i Balcani jugoslavi, non allineati ma centrifughi all’URSS di cui potevano essere considerati in parte avanguardia) venga rappresentata nel romanzo con una certa dose di superficiale leggerezza. 

Senza, cioè, scrostare realmente la vernice delle dinamiche della lotta politica, sociale ed etnica che all’epoca infiammavano anche il resto del Paese e senza quindi scendere nelle profonde ed assai più complesse – e differenti – viscere dei vissuti e dei trascorsi tormentati, interlacciati e radicati che hanno caratterizzato per secoli la Trieste asburgica e, in seguito, irredentamente regnicola, indipendente e, infine, repubblicana.

Non mi riferisco nello specifico a qualche noioso refuso (la città di Sacile menzionata almeno una volta impropriamente). 

Nè alle imprecisioni filologiche che spesso ritornano (l’Unione degli Istriani descritta dagli accenni degli autori è più quella della presidenza di Massimiliano Lacota dei primi anni 2000 che non la storica associazione di Lino Sardos Albertini o del di poco successivo Italo Gabrielli, così come il periodico della stessa organizzazione, nel 1972, non si arrogava la denominazione di Organo della Collettività Istriana in esilio come fece, invece, in tempi più recenti, pur come espressione della Libera Provincia dell’Istria in Esilio). 

Nemmeno alle tesi di ricostruzione storiografica adottate a man bassa su temi complessi, delicati e poco chiari come gli infoibati del Pozzo della Miniera (oggi Monumento Nazionale della Foiba di Basovizza), dell’Abisso Plutone – consiglierei agli autori lo studio dell’agile ed esaustivo manualetto Foibe, di Raoul Pupo e Roberto Spazzali, edizioni Mondadori, prima di cimentarsi ancora con temi di siffatta delicatezza – o delle oscure vicende della Banda Collotti con relative Villa Triste e caserma in via di Cologna.

Tanto per citare solo alcuni esempi.   

E non mi ricollego neppure al ritmo piuttosto frenetico e concitato degli accadimenti criminosi che compaiono nel romanzo: un tale susseguirsi di attentati, crimini e misfatti è chiaramente eccessivo anche per una città dal battito politico sincopato come poteva essere la Trieste degli anni di piombo.

Intendo esprimere, invece, la mia percezione, nella lettura del libro, di quella certa dose di superficialità che emanano i forestieri quando si illudono di poter narrare o, peggio, conoscere Trieste e le sue storie, le sue specificità e quell’unicum da melting pot che la contraddistingue e la smarca dal resto dei capoluoghi italiani.

Ciò nondimento il romanzo – poliziesco come dal sottotitolo – si lascia leggere ed apprezzare e richiama sovente immagini vivide di una Trieste che non c’è più ma che pulsava di vita ed attivismo poco più di cinquant’anni fa: luoghi ed atmosfere del capoluogo giuliano (allora anche principale piazza di smercio di jeans e moda occidentale per i Balcani nord-occidentali) riverberano nello sfondo di una trama dell’indagine portata avanti da un questurino bolognese riassegnato alla mobile sottraendolo al tedio della Scuola di Polizia di San Giovanni e dai vari comprimari, perennemente in contrappeso all’operato dei Carabinieri, sempre presenti ed usi obbedir tacendo.

I triestini che vissero quegli anni – e pure quelli della generazione X come il sottoscritto che ne assaporarono lo strascico in gioventù – riconosceranno usi, luoghi, situazioni che oramai sono stati stravolti se non spazzati via dall’inclemente incedere della globalizzazione transfrontaliera.

A Trieste si sa: il romantico decadentismo della città che fu porto dell’Impero (austro-ungarico), baricentro meridionale della Belle Époque mitteleuropea, simbolo di un crogiuolo sovranazionale di genti in un’epoca ormai tramontata ha sempre fatto presa. Leggere oggi, quindi, di quel momento storico frizzante e pericolosamente teso che, pure lui, ormai è trascorso per sempre trova comunque il suo piacevole perché.

Lettura rapida ed estiva in confezione pregiata e ben curata, l’apprezzabile romanzo è consigliato a tutti gli estimatori della Vecchia Signora dell’Adriatico in vena di rievocarne fasti e nefasti con tocco lieve e ben scritto.

@EnricoNeami