MUST READ: Il morto nel bunker. Indagine su mio padre, Martin Pollack, Keller Editore ‘Confini’, (2004) 2018, ISBN 978-88-99911-38-6, 262 pagine.
Martin Pollack, intellettuale austriaco, slavista, storico dell’Europa Orientale, abile narratore ed efficace scrittore, esponente di punta dell’intelligencija europea contemporanea, ha prodotto “un piccolo gioiello” – come ne ha scritto Claudio Magris – incentrato sull’autocritica alla propria storia famigliare poiché il filo conduttore del libro è l’indagine che egli compie sulla figura del suo padre biologico, Garhard Bast, nazista, ufficiale delle SS, agente della Gestapo e comandante di un Sonderkommando operante in seno ad un Einsatzgruppe nella campagna di annichilimento dell’opposizione politico-militare e di sterminio di ebrei ed Untermenschen al fronte orientale operata dal III Reich.
La prosa asciutta, schietta, lineare e chiara di Pollack rende il suo lavoro facilmente abbordabile da lettori di ogni estrazione e formazione, consentendo a tutti di divorare le quasi trecento pagine del volume come si trattasse d’un rilassante romanzetto; la copertina alpestre e spensierata dei tempi che furono, però, cela uno scritto profondo e variegato, sfaccettato ed approfondito, che spazia su temi difficili e delicati, senza mai scadere nella retorica o nella faciloneria assiomatica.
Il morto nel bunker, a ben vedere, è un vero scheletro nell’armadio del perbenismo intellettuale da salotto dei nostri discorsi e incombe sulle ovvietà moraleggianti di chi conciona a pancia piena e gola mai asciutta sui grandi temi legati al lungo Novecento, al nazismo, alle genti di confine ed alla memoria storica, la quale – sin dall’ultima di copertina – è dichiarata sorprendentemente corta in determinate circostanze.
L’autore appunta nelle piacevoli pagine del suo scritto le fasi della propria indagine sulla figura – mai definitivamente accettata – del suo vero padre che, a seconda guerra mondiale finita, venne trovato morto ammazzato in un bunker del Vallo Alpino alla frontiera del Brennero. Era stato ritrovato il cadavere di un austriaco, criminale di guerra nazista già passato in clandestinità ed in fuga sotto falso nome.
Pollack traccia in realtà innanzitutto un résumée sulla transizione dei popoli dell’Europa centrale dalla multietnicità dell’Impero Austro Ungarico – che, ben ci informa l’attento traduttore Luca Vitali, ha sempre fatto riferimento a sé come a La Monarchia – alla nettezza brutale degli stati nazionali e nazionalisti di metà Novecento e, quindi, alla illusoria quiete dei confini generati degli esiti disastrosi del secondo conflitto mondiale. Lo fa risalendo lungo le linee genealogiche della propria famiglia biologica, riscoprendo le vicende di immigrati asburgici di lingua tedesca che si mossero dal centro dell’Impero all’allora Stiria Inferiore, oggi – ma solamente dal 1918 – in Slovenia.
Il processo, congiunto alle vaste conoscenze tematiche dello scrittore ed alla sua onestà intellettuale, lo porta a sollevare il tema – scomodissimo ai ben pensatori politicamente corretti d’oggidì – degli assai radicati sentimenti identitari delle comunità di Sprach-grenzedeutschen, ovvero dei tedeschi del confine linguistico (ed anche etnico e, quindi, culturale) che furono nazionalisti o pangermanisti prima ed a prescindere dal nazismo. È il caso dei suoi nonni: la loro vita, il loro agire ed il loro pensare era stato, sempre e comunque, prima, durante e dopo il nazismo, quello dei Volksdeutscher (termine introdotto, poi, dal nazismo per identificare i tedeschi residenti al di fuori degli stretti confini metropolitani della Germania in senso stretto, contrapposta a quella Großdeutschland che avrebbe dovuto, appunto, includerli tutti territorialmente) più tedeschi dei veri tedeschi, ed era l’unico modo d’essere che loro avrebbero potuto mai concepire. Il nonno Rudolf Bast lo dichiarò persino a chiare lettere ed a verbale nel processo d’epurazione che subì nell’immediato dopoguerra e che gli costò due anni di detenzione nelle carceri austriache.
Una simile riflessione merita già di per sé la lettura del Morto nel Bunker, poiché rimanda, con la forte semplicità del fraseggiare di Pollack, alle più scomode – e quindi rilevanti – riflessioni sul nazismo (e parallelamente sui fascismi europei) che i grandi pensatori postbellici abbiano potuto maturare: il nazionalismo spinto all’estremo e l’antisemitismo virulento furono un’invenzione del Nationalsozialistische Deutsche Arbeitpartei oppure lo NSDAP populisticamente e criminalmente risvegliò, sfruttò e fomentò sentimenti che già allignavano stabili negli oscuri meandri esistenziali di una gran parte delle masse? Gli spunti di Pollack, assieme, ad esempio, alle riflessioni storiografiche e sociologiche sullo storico Affaire Dreyfus nella Francia della fine XIX secolo potrebbero aiutare a ragionarci sopra con estrema concretezza.
Altra tematica delicatissima, feroce e straziante che emerge con forza dalla lettura del libro è quella legata alla banalità del male, Hannah Arendt docet. L’autore dipinge a più riprese ed in diverse parti del racconto/inchiesta alcuni schizzi vivi di vita famigliare – a volte supportati anche da talune istantanee recuperate nel corso dell’indagine – in cui emerge preponderante la contrapposizione tra l’umanità dei rapporti tra le mura domestiche (l’orgoglio solare della nonna nel vedere il proprio figlio in divisa; i raduni di famiglia – a guerra già iniziata – a Tüffer/Laško che accomunavano i membri germanofoni e slavofoni della famiglia allargata nelle allegre mangiate e bevute; le escursioni in montagna o nei boschi dei dintorni di Gottschee/Kočevje) e la brutalità della macchina repressiva nazista e della campagna bellica: leggendo Pollack ci si immedesima e si percepiscono le stesse sue sensazioni, scaturiscono le medesime domande. Potevano coesistere nelle figure del padre, o degli altri parenti, contemporaneamente le due personalità? Agente della Gestapo o assassino del Sonderkommando ed alpinista agreste e socievole, figlio e padre amorevole?
Daniel Goldhagen ne I volonterosi carnefici di Hitler o Robert Lifton ne I medici nazisti hanno tentato di trovare delle risposte a quest’apparente corto circuito emotivo ed umano con un apparato documentale e di riferimento ben più strutturato ma, ciononostante, Pollack riesce a pizzicare lievemente ma significativamente anche quella corda.
Ed ancora: Gerhard Bast, agente della Gestapo (Geheime Staatspolizei, polizia segreta di stato, ovvero la polizia politica nazista), ufficiale delle SS operante nel Sichereitsdienst (SD – il servizio di sicurezza delle SS) nel 1944, rientrato da una prima “esperienza formativa” al fronte orientale, durante una battuta di caccia, per incuria o disattenzione, colpisce mortalmente un giovane battitore nel corso di un banale incidente. Lo specialista dello sterminio e probabile esecutore materiale di numerose uccisioni di civili, donne e bambini, viene processato dalla giustizia militare delle SS (che normalmente si giovavano del Sondergericht – cioè il diritto speciale a loro riservato – che evitava di subire la giurisdizione dei tribunali riservati ai comuni cittadini) e, ritenuto colpevole di omicidio colposo, sarà punito severamente e rapidamente. Pollack si ferma a riflettere sulla tragica assurdità dell’apparente differenza tra omicidi o assassinii giusti ed ingiusti e sul valore che il nazismo – e l’élite che gli ufficiali delle SS rappresentavano in seno al movimento – riservava alla vita umana quando soppressa in seno alle operazioni pianificate o quando tolta, invece, per negligenza dell’interessato. Politica criminale contro comune sentire degli esseri umani.
Spesso viene rimarcata l’apparente incongruenza nei comportamenti del padre: spietato burocrate delle SS che, ad esempio, persiste ad indicare nei propri taccuini o sul retro delle fotografie le località dell’attuale Štajerska non con i secolari toponimi tedeschi – ben noti a tutti i cultori delle amare vicende dei Vertriebenen (espulsi) e dei Flüchtlingen (esuli che abbandonarono la propria terra senza formale decreto d’espulsione) germanici – ma con gli equivalenti d’uso corrente in lingua slovena. Si tratta di un’apparenza che trova le proprie radici nella profonda e duale complessità dell’animo umano, certamente portata all’estremo nel pensiero nazista: gli assiomi e gli assoluti della politica nella vita pubblica, le consuetudini famigliari e tradizionali nella sfera più intima ed atavica dei parenti più stretti.
Il libro solleva questioni, si noti bene, che sono assai più universali di quanto possa inizialmente apparire: storie e vicende delle genti delle nostre terre – gli ‘italiani del confine linguistico’ della Venezia Giulia – sono perfettamente sovrapponibili alle casistiche evidenziate da Pollack: il trapasso dall’ecumene asburgica agli stati nazionali e nazionalisti – si rileggano gli studi di Almerigo Apollonio, ad esempio, in particolare Dagli Asburgo a Mussolini -; le tradizioni asburgiche anche iconografiche mai scalfite nemmeno dalla retorica e dalla propaganda dell’epoca Balilla – in quante case di italianissimi del Confine Orientale trovavano spazio d’onore i ritratti dei congiunti caduti o dispersi in divisa imperialregia sul fonte della Galizia? -; il patriottismo nazionalista pre fascista, indipendente dall’arrivo dei gerarchi regnicoli del cosiddetto fascismo di confine, nel cono prospettico del quale va ad inserirsi anche una adesione alle formazioni della Repubblica Sociale Italiana o dei reparti autonomi filo-germanici totalmente atipica e troppo spesso erroneamente interpretata dalla letteratura divulgativa sul tema; la disarmante nostalgia dei nostri vecchi – così come dei nonni di Pollack – per una mitologica età dell’oro in cui la convivenza tra etnie era pacifica, prima dell’arrivo di un furioso e devastante nazionalismo che ne avrebbe guastato per sempre quei rapporti.
Dalle pagine del Morto nel bunker esce una condanna totale, inequivocabile, ‘senza se e senza ma’ al nazismo, ai suoi metodi ed ai suoi crimini. Ciò non di meno, l’attenta analisi della situazione non tace sulle colpe, gravi, di chi da vittima si fece poi persino peggiore dei propri carnefici.
Nel consueto stile limpido e lineare del testo, un efficace passaggio è dedicato ai massacri postbellici di collaborazionisti sloveni e croati da parte dell’Esercito Popolare di Liberazione del Maresciallo Tito: militari ed attivisti slavi anticomunisti che tentavano di sottrarsi alla violenza indiscriminata fuggendo verso il cuore dell’Europa, terminato il conflitto, vennero riconsegnati agli Jugoslavi dagli Alleati. Essi, assieme alle loro famiglie (anziani, donne e bambini compresi), vennero barbaramente massacrati in numerose località della Slovenia; Bleiburg/Pliberk un nome per tutti, ma anche Gottschee/Kočevje, mille altre località del territorio Sloveno (si consulti l’apposita sezione sulle sepolture di guerra nel sito di ricerca in Slovenia geopedia.si), tra cui proprio Tüffer/Laško con l’oggi fortunatamente ma tristemente nota Huda Jama/Barbara Rov, la miniera in cui furono murate vive centina se non migliaia di persone (apripista degli studi sul tema lo storico sloveno prof. Mitja Ferenc).
Si tratta, insomma, di un lavoro elegante e sofisticato che ben dissimula la sua raffinatezza nella scorrevole gradevolezza del proprio fraseggiare e che fornisce ottimi spunti di riflessione per aiutare il lettore a far sì che la lectio della storia non riecheggi nella vuota cassa del pensiero di circostanza ma possa, invece, essere efficace nel suo arduo e quanto mai attuale ruolo di Magistra Vitæ.
Di certo per noi gente del Confine Orientale, limes permeabile e mobile che ancor oggi prosegue nella propria secolare funzione di tramite tra i due mondi, eterno frangiflutti frapposto tra Balcani e latinità, la lettura di questo bel lavoro è un pò facilitata per la conoscenza consuetudinaria con luoghi, fatti e persone: Laibach/Ljubljana/Lubiana, Cilli/Celje/Celie, Marburg/Marburk/Maribor con Rudolf Majster e la sua ‘Domenica di Sangue’, Windischgräz/Slovenj Gradez, Linz, Graz, Trieste, Agram/Zagreb/Zagabria, Samobor…
Ottima la traduzione a cura del citato Luca Vitali, corredata di un notevole apparato di note esplicative (alla traduzione ed alla sua complessità). Un’unica svista, in questo ambito: Sankt Veit an der Glan, ed altre località minori citate nel testo, sono certamente situate in Kärnten (il più meridionale dei Bundesländern della Republica d’Austria), ovvero in Carinzia e non in Carnia (zona storico-geografica dell’attuale Friuli Venezia Giulia), come svariate volte erroneamente riportato.
In un’unica occasione Martin Pollack sembra cadere nell’innocuo tranello dell’ingenuità: quando egli si chiede come avesse potuto il padre Gerhard Bast, visitando i luoghi della propria infanzia nelle fasi finali del secondo conflitto mondiale, farsi fotografare sereno ed in apparente armonia assieme ad alcuni villici sloveni di sua conoscenza: poteva un SS tedesca concedersi la familiarità con elementi sloveni, cioé membri di quel popolo che il III Reich perseguitava e vessava nelle forme più atroci? Ebbene, forse, Pollack non ha tenuto conto della variabile collaborazionismo, che potrebbe spiegare molto semplicemente la compresenza cordiale di nazisti e sloveni nella medesima fotografia. Va ricordato che gli sloveni collaborazionisti – analogamente ai croati in altro contesto – nell’ultimo biennio del secondo conflitto mondiale furono assai numerosi: i soli reparti Domobranci (ovvero la Guardia Territoriale Slovena addestrata dalle SS a partire dall’autunno 1943, la più nota ma non certo l’unica formazione di slavi etnici a contrapporsi ai partigiani nella regione) raggiunsero quasi le 13 mila unità su un totale di poco più di 1 milione di abitanti sloveni alla data del 1943.
Tutto questo però nulla toglie alla bellezza del Morto nel bunker ed alla coraggiosa quanto sofferta presa di coscienza del suo autore Martin Pollack rispetto alla storia scomoda della propria genealogia. L’editore roveretano Keller – che ha portato in Italia anche altri lavori di Pollack come il più recente Topografia della memoria o il magistrale Galizia. Viaggio nel cuore scomparso della Mitteleuropa – ancora una volta ha fatto centro, consolidando la propria posizione di vertice nel panorama degli ‘artigiani della Memoria’ che tutti i critici le riconoscono.
Ve lo conferma chi scrive da Trieste, dove i ‘morti nei bunker’ sono un tema attuale e vivo tanto quanto quelli nelle fortificazioni del Brennero.